Andrea Bitetto

 

Andrea Bitetto, nello scritto che riportiamo tratto da Critica Liberale, si occupa del fine vita, argomento che, come tutti quelli che richiedono la massima attenzione nella espressione sia del consenso che del dissenso, viene regolarmente trascurato. Poiche' Andrea cita ripetutamente il cardinale Ottaviani, per avere piena contezza del personaggio, mi viene in mente una sua emblematica battuta pronunciata sottovoce in perfetto dialetto romanesco. Tutto avvenne, in tempi ormai lontani, in occasione di una discussione fra alti prelati riguardante l'atteggiamento da tenere, da parte della Chiesa, nei confronti della pillola anticoncezionale. Ebbene, mentre un Cardinale si stava affannando ad esprimere un suo pensiero prudentemente favorevole alla "medicina", Ottaviani sussurrò: "...l'avesse presa su madre....". Quanto precede suggerisce ad Andrea, ed a noi tutti, di considerare il pensiero ecclesiale come mutevole secondo le finalità che è destinato a raggiungere.... ( P. Dante).

 

Fine vita, il Tevere è stato prosciugato


di Andrea Bitetto                                                                                                                                      Giugno 18, 2025

Se l’Italia fosse un paese serio il Parlamento italiano si determinerebbe a legiferare sul tema del suicidio assistito o della eutanasia in modo del tutto autonomo rispetto ai desiderata di questa o quella confessione religiosa, maggioritaria o minoritaria che essa sia.

Se l’Italia fosse un paese serio, nel legiferare su tale materia proverebbe anche parecchio imbarazzo perché la sentenza della Corte costituzionale che, mettendo in mora il Parlamento, chiedeva un intervento normativo è di quasi sette anni fa.

Se l’Italia fosse un paese serio, e quindi laico nel senso pieno del termine, la legislazione in discussione avrebbe come obiettivo quello di tutelare la libertà di coscienza di ciascun singolo individuo e non quella del singolo deputato più o meno beghino.

Se l’Italia fosse un paese serio anche i deputati che nel loro privato si professano cattolici e/o cristiani in generale, ricorderebbero che fu un martire della Chiesa, Thomas More, ad esprimersi in favore della eutanasia come atto cristiano. Non oggi, ma cinque secoli fa.

Se l’Italia fosse un paese serio ricorderebbe come quel grandissimo cattolico di Arturo Carlo Jemolo definiva l’essenza di una coscienza laica: «La vera coscienza laica si ha nel credente solo allorché egli accetta lo stato di fatto della diversità di concezioni che si riscontrano in un dato momento, e che ritiene lo Stato debba ispirare le sue leggi e le sue opere a quelle visuali di bene che sono comuni a tutte le concezioni (…) e che pertanto lo Stato debba ammettere nella sua legislazione, consentire attraverso la sua legislazione, quello che per lui credente è peccato, e la propaganda di che per lui è tale: lasciando alla libera gara tra uomini religiosi ed uomini non tali, il compito di fugare il peccato, di fare sì che il peccato, pur consentito dalla norma di legge, non abbia mai a venire commesso».

Se l’Italia fosse un paese serio ricorderebbe che quel che ha in mente di fare il ministro Tajani – ovvero farsi suggerire un atto del Parlamento italiano da qualche prelato – sarebbe piaciuto al cardinal Ottaviani negli anni ‘50: ovvero conformare le leggi della Repubblica alla dottrina cattolica perché, dopotutto, in Italia si tien pubblica contabilità dei battezzati cattolici. Praticanti o no, osservanti o meno, probi o smaccati peccatori.

Se l’Italia fosse un paese serio avrebbe qualcuno che, come ai tempi del cardinal Ottaviani, avrebbe preso carta e penna per resistere all’ennesima indebita intromissione nella legislazione italiana da parte cattolica, e per ricordare ai sedicenti laici alle vongole che cosa vuol dir esser laicisti (e non laici: la distinzione in Italia era infatti orpello linguistico che tanto piaceva alla Civiltà Cattolica, voce dei gesuiti). Ma Salvemini è morto purtroppo quasi settanta anni fa e la sorte non ci ha più sorriso.

Un grande liberale e laico, Giovanni Spadolini, definiva i rapporti tra stato italiano e potere spirituale idealmente misurando la distanza delle due sponde del fiume Tevere. L’Italia che la serietà l’ha perduta su un pezzo e che oggi se ci si permette di scriver quel che qui si scrive si volta dandoti dell’anticlericale alla Podrecca, quella Italia ha prosciugato il Tevere.

 

Repressione è civiltà. Il modello del ddl sicurezza Nordio

 

Andrea Bitetto                                                                                                                                   04/11/2024

L’alternativa ad un modello liberale del diritto penale è quella rappresentata dalle varie forme che ha variamente assunto il modello inquisitorio. Parlo di pluralità di forme perché non esiste più l’unitario modello inquisitorio invalso a partire dal dodicesimo e tredicesimo secolo, il modello approntato dalla Chiesa quando questa deciderà di far propria una politica penale contro gli eretici, con la legittimazione del sospetto, i tormenti per sollecitare la confessione, la delazione e tutti i tristi ed inumani complementi.

Oggi i modelli inquisitori, o se si preferisce: antigarantisti, esistono ancora ogniqualvolta si abbraccino le teorie della prevenzione sociale, o della difesa sociale, o si individua, per punire, non il fatto materiale bensì il tipo normativo dell’autore del reato, facendo propria una delle tante possibili varianti eticistiche, antropologiche, decisionistiche o efficientistiche.

L’assunzione a modello di ciascuna di queste possibili varianti è resa ancor più semplice nella misura in cui la vittima del preteso fatto di reato diventa l’eroe moderno[1]. Avviene quindi che le aspettative della vittima diventino, per usare le parole di Filippo Sgubbi[2], fonte di responsabilità penale. L’urlo delle vittime “vogliamo giustizia” tende a far assimilare, del tutto indebitamente, la ragione di giustizia quale risoluzione imparziale di un conflitto e ragione di parte, quale soddisfacimento unilaterale del personale interesse.

Si tratta della attualizzazione, a livello normativo, del modello di capro espiatorio enunciato da Réné Girard. Quando insorgono – o ancor peggio: quando vengono alimentate – ragioni di paura ed insicurezza, un sentimento d’odio si diffonde e permea la società e tende a convergere verso una vittima. Questa è tenuta a pagare non perché sia particolarmente colpevole, ma perché la comunità non è in grado di trovare accordo se non unendosi contro qualcuno.

Questa breve premessa aiuta a comprendere l’ispirazione generale del c.d. Disegno di Legge Sicurezza, approvato a settembre dalla Camera dei Deputati ed ora all’esame del Senato della Repubblica.

L’intero impianto di tale disegno di legge è ispirato, con forza e coerenza che avrebbero meritato altro scopo, ad una logica esclusivamente repressiva.

Si dirà: giocoforza essendo un provvedimento in materia penale.

In un sistema penale già gravato da sanzioni penali che spiccano per la severità sanzionatoria, legato del modello valoriale che ispirò il Codice Rocco, il legislatore oggi ritiene che quell’impianto debba esser lardellato con, da un lato, la creazione di nuove ipotesi di reato e, dall’altro lato, inasprendo le sanzioni per alcuni fatti già previsti e puniti come reato.

Nulla di nuovo: si tratta del vecchio mantra del legislatore penale che vanta secolare applicazione: consenso o repressione.

La genesi di un simile intervento sarebbe rinvenibile nell’allarme sociale che le cronache registrerebbero. Da qui la domanda sociale di un intervento, quale che sia.

E’ la classica risposta attribuita alla funzione simbolico espressiva della normazione penale, esempio evidente di populismo applicato al diritto penale. Già vista all’opera troppe volte per poter dire di esser stupiti. Il suo meccanismo è tanto semplice quanto tecnicamente rozzo: si parte sempre da qualche fatto di cronaca, opportunamente veicolato dagli organi di informazione sempre attentissimi a stringere l’angolo della inquadratura in cerca della suggestione che solo la pornografia del dolore o della disperazione sanno descrivere con magnificazione voyeuristica del dettaglio. Da qui la volontà di fornire qualche risposta, per dimostrare che questa volta la politica non è sorda o cieca. E così si appronta per le stampe sulla Gazzetta Ufficiale un nuovo provvedimento che, ovviamente, non si cura di rimediare alle cause ma si concentra sulle conseguenze. Non si cura la febbre, si comprano nuove pezze per la fronte e nuovi termometri e si aprono più facilmente le corsie di quel surrogato degli ospedali sociali che son le carceri, per chi vi deve entrare, e si serrano le stesse porte in uscita per chi potrebbe uscirne.

Di quel che avviene all’interno degli istituti di pena tanto interessa poco o punto a nessuno, con buona pace della tendenziale rieducazione o risocializzazione del condannato.

Nella ridda di nuove creazioni normative – frutto di autentica incontinenza normativa – vi è l’imbarazzo della scelta. Una cosa è certa: si è nel pieno di quel modello antigarantista di cui si diceva in apertura. Il fatto di reato è mero pretesto perché il vero obiettivo è l’autore del reato, facendo propria una delle tante possibili varianti eticistiche, antropologiche, decisionistiche o efficientistiche che la pochezza giuridica sa del legislatore e dei suoi ispiratori è sempre prodiga a scovare.

Le misure approntate spaziano dalla creazione pura e semplice di nuovi reati per condotte già di per sé sanzionabili secondo il vigente Codice Penale, tutte caratterizzate da pene edittali severe, all’ulteriore inasprimento di reati già previsti: quest’ultimo caso è quello, ad esempio, che inasprisce le pene per il reato di accattonaggio qualora venga fatto ricorso a minori per questuare. Va detto che tali ipotesi di reato, già introdotte nel 2009 ed inasprite nel 2018 e sempre in pieno sacrale ossequio della funzione simbolico espressiva della normazione penale, non avrebbero di per sé meritato un trattamento sanzionatorio al di fuori dei casi di violenza o minaccia nei confronti di minori.

Si arriva, poi, al paradosso della pretesa stretta dei c.d. blocchi stradali. Si tratta di fornire risposta, a quanto pare, all’allarme sociale (del tutto sproporzionato) derivante da chi manifesta per strada. Ora ammesso e non concesso che vi fosse necessità di un simile intervento, la legislazione vigente già sanziona in via amministrativa tali condotte con il pagamento di un importo da euro 1.000 ad euro 4.000. E cosa fa il legislatore? Introduce un reato ad hoc sanzionato con un mese di carcere ed una multa di euro 300. La trasformazione da sanzione amministrativa a reato imponendo, tra l’altro, il ricorso ad un processo per l’accertamento della responsabilità.

Ora, posto che le voci che vorrebbero, per ragioni umanitarie e tecniche, una riforma del sistema penale in modo da dotarci, dopo quasi cento anni di vigore del codice fascista, di un codice di impronta liberale e conforme ai mutati (non oggi, ma nel 1948) principi costituzionali, suonan sorde alle orecchie di governo e maggioranza (e pure di buona parte delle opposizioni), nemmeno gli argomenti di tipo latamente utilitaristico paiono subire miglior accoglimento.

Infatti, tra i tanti possibili modelli di analisi della disciplina penale, gli stessi studi di analisi economica del diritto hanno illustrato come la deterrenza efficiente richiede una pena modesta a fronte di un’alta probabilità di punizione[3]. Qui, invece, si fa l’esatto contrario: pena inasprita con minor probabilità di certa punizione.

Ma non basta.

La torsione repressiva si manifesta in tutta la sua inutile e gratuita vessatorietà in altre due previsioni manifesto, quelle relative al reato di nuovo conio che puniscono la rivolta in carcere e, all’interno della fattispecie, pure la condotta passiva di chi resista, pacificamente, agli ordini impartiti all’interno dell’istituto di detenzione.

Si deve alla riflessione di Michel Foucault[4] la consapevolezza che la trasformazione della penalità avvenuta con le “moderne” (sic!) istituzioni penitenziarie non riguarda solo una storia di corpi (quelli dei detenuti) ma più precisamente una storia di rapporti tra il potere politico e quei corpi. Ed è la storia, evidente a chiunque abbia visto un carcere al suo interno, della coercizione operata su quei corpi, il loro controllo, il loro assoggettamento, la maniera in cui questo potere viene esercitato direttamente o indirettamente su di essi, la maniera in cui li piega, li fissa, li utilizza. Viene quindi alimentata anche una nuova fisica dell’istituzione penitenziaria in relazione ai custoditi. In questa fisica la delinquenza certo gioca un ruolo fondamentale. Ma, correttamente osserva Foucault, non si tratta di delinquenti, intesi quali mutanti o devianti sociali sui quali si indirizzerebbe la repressione penale. La delinquenza che diviene determinante è quella rappresentata dal binomio indissolubile penalità-delinquente. L’istituzione carceraria fabbrica una categoria di individui che creano un circuito con essa istituzione, circuito che si autoalimenta: la prigione non corregge, piuttosto richiama a sé ed incessantemente gli stessi individui. Contribuisce, in questo modo, alla creazione di una popolazione emarginata tramite la quale ci si serve per obiettivi altri: al fondo per far pressione sulle c.d. irregolarità e sugli illegalismi che si ritiene di non poter tollerare.

Ed ecco che in un simile contesto, e solo in un simile contesto, si spiega la nuova previsione volta ad incriminare chi, all’interno di un carcere perché detenuto, si renda responsabile di atti di resistenza passiva che impediscano il compimento di asseriti atti d’ufficio necessari alla gestione del carcere. Si incrimina una condotta – la mera resistenza passiva – che si dimostra del tutto priva di qualsiasi capacità di mettere a rischio un bene giuridico – presupposto indefettibile di qualsiasi sanzione penale. Un comportamento innocuo anche perché risulta del tutto privo di qualsiasi ancoraggio costituzionale.

Questo aborto normativo viene inserito all’interno di un più ampio contesto, quello che, con il disegno di legge, mira a punire gli atti di rivolta in carcere.

Detto altrimenti, e sempre seguendo lo schema tipico del populismo penale secondo cui al fatto di cronaca segue pedissequo ed ottuso l’intervento punitivo bollato e vidimato dal legislatore, poiché le condizioni delle carceri sono notoriamente infami (a luglio scorso, durante l’ondata di caldo che rendeva la vita negli istituiti di detenzione ulteriormente indegna, vi furono rivolte dei detenuti), nulla si fa per renderle meno indegne e chi si trova al suo interno deve accettare di buon grado, in ordine militare, la condizione subumana cui è tenuto.

Si dirà che questo impianto risponde ad esigenze retribuzioniste: ti comporti in modo illecito e paghi per la tua condotta.

Nemmeno questo è vero. La tradizione della Scuola classica del diritto penale, di cui uno dei capostipiti fu Francesco Carrara, e che era scuola di chiara matrice liberale, aveva ben chiaro un principio fondamentale. Il carcere non deve né convertire il detenuto né corromperlo.

La moderna scuola repressiva di cui è imbevuto il provvedimento in commento per certo prova a convertire il detenuto, e non potrà riuscirvi perché capace solo di ulteriormente corromperlo.

Ed è quindi inevitabile chiudere con una amara constatazione sulla qualità dei giuristi che assecondano simili approcci. Ancora una volta, infatti, si deve dar atto delle ragioni di Alexis de Tocqueville, secondo il quale “a fianco di un despota che comanda, si trova quasi sempre un giurista che legalizza e dà sistema alla volontà arbitraria del primo […]. Colui che ha solo l’esperienza del principe, senza quella del giurista, non conosce che una parte della tirannia. Bisogna riferirsi ad entrambe per capire il tutto”[5].

Sarebbe compito di chi coltiva la cultura giuridica e, sommamente, di chi lo fa ispirandosi a principi liberali opporsi a simili interventi normativi e resistere a tale deriva.

[1] C. Eliacheff e D.S. Lariviere, Il tempo delle vittime, Milano, 2008, 17.

[2] F. Sgubbi, Il diritto penale totale, Bologna, 2019, 31.

[3] R. Cooter – T. Ulen, Law and Economics, 4th ed., Pearson, 2004, 474.

[4] M. Foucault, La società punitive, Corso al Collège de France (1972-1973), Milano, 2019, 277 e passim.

[5] A. de Tocqueville, Fragments historiques sur la revolution francaise, Paris, 1865.

 

 

Le contraddittorie riforme del diritto penale

 

Dopo mesi di discussioni, è arrivato il via libera del Senato al disegno di legge Nordio che prevede modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento giudiziario. Ecco le principali novità e le criticità.

 

 Andrea Bitetto tratto da mondoeconomico.eu         05 Marzo 2024

 

La necessità di riforme del sistema penale italiano è un nervo scoperto da troppo tempo. Il Governo Meloni, al momento della sua formazione, ha affidato a Carlo Nordio il Ministero della Giustizia. Le credenziali di Nordio rappresentavano, sulla carta, una garanzia per un possibile disegno complessivo di riforma.

Carlo Nordio è un ex pubblico ministero, apprezzato per il rispetto che ha sempre assicurato, nonostante l’incarico di accusatore, alle garanzie degli indagati. Smessa la toga, si era sempre prodigato, come commentatore, come conferenziere e come editorialista, nel difendere e promuovere i caratteri essenziali di un diritto penale liberale.

Ma non solo, Nordio aveva presieduto l’ennesima Commissione ministeriale di riforma del Codice penale. I risultati, come quelli raggiunti da un altro predecessore, Giuliano Pisapia, erano sicuramente incoraggianti. Il progetto di nuovo Codice penale sarebbe stato un evidente passo in avanti rispetto a quello ancora in vigore che era stato emanato nel 1930, in pieno periodo fascista, e che era, e resta, fortemente indebitato con la cultura autoritaria di quel regime repressivo delle libertà individuali. Lo stesso Codice del 1930, il Codice Rocco in nome del Ministro del tempo, aveva infatti rimpiazzato il precedente codice penale dell’Italia post-unitaria, il Codice Zanardelli, che era invece un codice di chiara impronta liberale.

Una delle caratteristiche che maggiormente distingue il Codice Rocco è la severità delle pene previste unita a una descrizione delle fattispecie che si caratterizza per una tendenza all’espansione delle condotte penalmente sanzionate. La definizione della condotta, infatti, tende a lasciare un significativo spazio interpretativo che si accompagna quindi alla possibilità di una evidente stretta repressiva. Purtroppo, però, i migliori progetti di riforma tendono a restare nei cassetti di qualche ministero a prendere la polvere, e così è stato sia del lavoro condotto da Giuliano Pisapia, sia di quello guidato da Carlo Nordio.

Al Codice penale Rocco si affiancava, in una visione sistematica complessiva, un Codice di procedura penale, emanato nello stesso anno, di chiara impronta inquisitoria, con un forte squilibrio tra accusa e difesa, in favore della pubblica accusa.

Nel corso del regime repubblicano, e seguendo i nuovi principi della Carta costituzionale del 1948, ispirata a valori democratici, si era attivata una ridefinizione, in chiave interpretativa, delle norme del codice penale maggiormente in contrasto con il mutato sentimento culturale e politico dell’Italia democratica. In questo sforzo un ruolo primario va riconosciuto alla Corte costituzionale, la quale ha dichiarato il contrasto con la costituzione di molte norme incriminatrici del Codice Rocco.

Nel 1988, poi, venne approvato ed entrò in vigore il nuovo Codice di Procedura penale, il Codice Vassalli, dal nome dell’allora Ministro della Giustizia, che ribaltava il modello processuale inquisitorio – incompatibile con i principi liberali – e introduceva un processo accusatorio, cercando la propria ispirazione nei modelli adversarial in voga negli ordinamenti anglo-americani.

Tornando a Carlo Nordio, fare il Ministro della Giustizia impone ovviamente un onere maggiore rispetto a quello di commentatore o di esperto della materia. Si deve passare dalle proclamazioni di principio, dagli articoli perfetti e condivisibili, alla capacità di promuovere un disegno ampio di riforma e, soprattutto, trovare il consenso politico per realizzare tali progetti.

L’inizio non è stato coerente con le premesse liberali.

Appena insediato, sulla scia di un fatto di cronaca – l’organizzazione di un rave party – il Ministro ha contribuito a tipizzare e sanzionare un nuovo reato – il rave party, appunto – operazione della cui utilità si è subito dubitato.

Questo è un altro tratto tipico della legislazione italiana in materia penale: in un sistema che certo non fa difetto di norme sanzionatorie, si inserisce sempre un qualche nuovo reato sull’onda emotiva di qualche fatto di cronaca. La tristemente nota funzione simbolico espressiva di cui parla il giurista Giovanni Fiandaca. Si tratta, di solito, di norme fortemente ideologiche, di scarsa utilità pratica. Servono solo a chi le emana per affermare un qualche profilo identitario e per fare la cosa peggiore in materia di legislazione, soprattutto penale: rispondere agli umori dell’opinione pubblica.

Sulla stessa scia, poi, venne un altro intervento normativo, l’introduzione del reato universale che sanziona la gestazione per altri. Reato universale perché lo stato italiano, secondo la prospettiva del legislatore, dovrebbe contrastare tale pratica anche se realizzata al di fuori del confine nazionale e quindi anche se realizzata in sistemi giuridici che la ammettono. A prescindere dall’opinione circa tale pratica, non si tratta evidentemente di un approccio liberale.

E ancora, lo stesso Ministro ha favorito l’emanazione di un pacchetto di norme volte ad inasprire le condotte di resistenza a pubblico ufficiale: se c’è un profilo, come si è visto, che non manca nel sistema penale è quello della severità delle sanzioni penali.

Veniamo alla cronaca più recente. Il governo ha approvato il 15 giugno 2023 un disegno di legge (cosiddetto ddl Nordio, approvato in prima lettura al Senato il 13 febbraio scorso, ora all’esame della Camera) che interviene su alcuni profili sia di diritto sia di procedura penale.

Sul piano sostanziale, viene abrogato il reato di abuso d’ufficio. Si tratta di una fattispecie travagliata, oggetto nel passato di interventi che hanno cercato di meglio definire i contenuti della condotta sanzionata. Secondo i promotori della abrogazione, tale ipotesi di reato è troppo generica nella definizione, con il rischio di produrre come unico effetto il timore da parte del pubblico ufficiale di assumere le decisioni di propria competenza. Inoltre, tale norma si dimostrerebbe priva di reale contenuto sanzionatorio viste anche le scarse sentenze di condanna che si registrano (solo 18 condanne nell’anno 2021 a fronte di oltre 4700 contestazioni). Infatti, il più delle volte l’abuso di ufficio veniva contestato assieme ad altri reati: corruzione, concussione.

Secondo i critici dell’abolizione, però, l’esiguità delle condanne non sarebbe in grado di esprimere la generale funzione di prevenzione attuata da tale previsione di reato. Inoltre, la semplice abrogazione non sarà risolutiva, anche in ragione degli obblighi derivanti dalla partecipazione dell’Italia all’Unione europea: una previsione simile è presente in tutti gli ordinamenti europei, tanto che i promotori della abrogazione riconoscono che in futuro non è escluso un intervento additivo. Non necessariamente, infatti, le condotte prima sanzionate dall’abuso d’ufficio saranno coperte dagli altri reati concorrenti.

Più utile, invece, la riforma relativa ad alcuni aspetti procedurali. In primo luogo, per l’emanazione di misure cautelari è prevista ora la competenza di un giudice non più monocratico ma collegiale, questo per consentire una maggiore ponderazione prima dell’emanazione di provvedimenti fortemente limitativi della libertà dell’indagato.

È stata poi introdotta una stretta – che ha suscitato molto clamore – sulla divulgazione di una particolare categoria di atti di indagine, le intercettazioni telefoniche. Chi critica tale stretta sostiene che si tratterebbe di una ingiusta limitazione del diritto di informazione dell’opinione pubblica. La critica, però, non colpisce nel segno.

Le intercettazioni sono appunto atti di indagine, cioè vengono effettuate – correttamente – a insaputa dell’intercettato. E avvengono durante la fase iniziale del procedimento penale, che non è ancora il “processo”. Il processo, infatti, nella tradizione accusatoria e non inquisitoria, è il momento pubblico per eccellenza. Anzi: l’unico momento pubblico, che però nulla ha a che vedere con il concetto di democrazia. Dove esiste la giuria come giudice del fatto, i giurati sono isolati dall’opinione pubblica per tutta la durata del loro incarico, proprio perché non ne subiscano gli umori. E ancora, le indagini, e i risultati delle stesse, sono atto di una parte, l’accusa, mentre il processo per essere tale presuppone che l’accusato vi partecipi con le proprie difese. Il processo postula il contraddittorio delle parti, altrimenti non è processo. Se il processo è dibattimentale – diversi riti alternativi, infatti, vengono definiti a porte chiuse – chiunque, anche i cronisti, può assistervi, ascoltare le testimonianze e osservare la formazione della prova, tale solo se assunta in contraddittorio. Non esiste lesione del processo nel limitare la diffusione delle intercettazioni. Si limita invece la formazione di un pregiudizio, che è farsi un’idea senza aver ascoltato la posizione dell’accusato. Altrimenti lo strumento più “democratico” diventa il linciaggio. Appunto, quel che si vorrebbe evitare.

Queste ultime misure paiono essere maggiormente coerenti con una impostazione rispettosa dei principi liberali del sistema penale.

Il vero banco di prova delle capacità di riforma nel sistema penale sarà rappresentato dalla annunciata, e però sempre rimandata, modifica costituzionale relativa alla separazione delle carriere tra Giudici e Pubblici Ministeri. Nel sistema processuale accusatorio, infatti, l’accusa e la difesa devono essere poste su un autentico piano di parità processuale. L’ordinamento giudiziario italiano, invece, resta improntato all’organizzazione frutto del vecchio modello processuale inquisitorio. Tale tratto deve essere superato.

Per perseguire questo obiettivo, però, è necessaria una riforma della Costituzione, che richiede un iter di approvazione rafforzato e complesso e, soprattutto, richiede coesione politica circa gli obiettivi perseguiti. Ed è questo il punto: il favore da parte delle forze politiche presenti in parlamento verso una tale impostazione liberale è sicuramente minoritario. Riuscirà il Ministro Nordio a vincere tale pregiudizio negativo? Sarà in grado di realizzare le proposte che sosteneva da commentatore?

L’arte politica è assai più complessa: alla propria personale opinione va affiancata la capacità di persuasione. Questa la sfida del Ministro. Staremo a vedere.

 

 

 

 

L’IMPERO DELLA LEGGE E L’ANARCHIA DEGLI SPIRITI.

IL LIBERISMO MORALE DI LUIGI EINAUDI - DIRITTO E LIBERTÀ

 

    Andrea Bitetto                                                                                                                                             29 Marzo 2024

Più che celebrare è opportuno ricordare Luigi Einaudi a 150 anni esatti dalla sua nascita. Qualsiasi celebrazione, infatti, corre il rischio di virare verso la retorica, retorica che per indole e per carattere erano quanto di più lontano dalla personalità Einaudi.

Le molte vite di Einaudi si sono intrecciate sino alla sua morte: continuò ad esser un professore sia quando ebbe la guida del Ministero del Bilancio, sia quando divenne Governatore della Banca d’Italia e, infine, quando divenne, lui monarchico, Presidente della neonata Repubblica.

In ciascuna di queste attività, così come prima nell’insegnamento e nella continua opera di divulgazione che condusse da pubblicista, mantenne sempre fede al suo orientamento liberale in politica e liberista in economia.

Ed è proprio il suo liberismo che vorrei proporre in questo abbozzo di ricordo.

Certo, Einaudi era un accademico, un professore, come si è detto, che però volle sempre contribuire a chiarire, a spiegare, a render comprensibili anche le leggi dell’economia all’opinione pubblica più vasta, evitando il linguaggio iniziatico proprio dei mandarini, grazie anche ad una prosa mai paludata, sempre fresca e tersa.

Einaudi non fu un economista sistematico: resterà sempre troppo forte in lui, anglofilo dichiarato come lo fu prima di lui il Conte di Cavour, l’ascendente esercitato dall’empirismo inglese e scozzese, e quindi la continua attenzione agli insegnamenti che venivano impartiti, prima di tutto a lui ed al suo pensiero, da quella che Bobbio descrisse come la “lezione dei fatti” (1).
Einaudi partiva sempre da un esempio concreto, prendeva a proprio riferimento non l’astratto – e quindi: inesistente – homo oeconomicus, ma l’imprenditore, l’agricoltore, lo speculatore, l’operaio, per esporre il problema concreto e fornire a questo una risposta altrettanto concreta.

Se Einaudi non fu sistematico, il concretismo, l’empirismo lo vaccinarono dall’ideologismo, ovvero, e nonostante le semplificazioni, rifiutò sempre di esser dipinto come un liberista tetragono, pronto ad applicare sempre e solo la ricetta liberistica a qualsiasi problema fosse chiamato ad affrontare.

Quell’immagine liberista fu, non a caso, definita dallo stesso Einaudi, in una risposta al deputato socialista Calosso, un “fantoccio mai esistito e perciò comodo a buttare a terra” (2), respingendo, assieme al fantoccio, la stessa tesi, summa liberistica, secondo cui i singoli uomini urtandosi l’un l’altro finirebbero per fare l’interesse proprio e quello generale, definendo tale summa come una autentica “invenzione degli anti liberisti, si chiamassero o si chiamino essi protezionisti o socialisti o pianificatori”.

Perché, per Einaudi, nessuno che abbia mai letto il libro classico di colui che è considerato per antonomasia il prototipo dei liberisti, Adam Smith, potrebbe mai ammettere che si possa applicare tale fantoccio liberista allo stesso Smith. Nella Ricchezza delle nazioni, infatti, lo scozzese iniziatore della stessa scienza economica, scrisse chiaramente che “la difesa è più importante della ricchezza” assoggettando quindi i cittadini ad imposte per perseguire il bene comune, per poi scrivere parole di fuoco contro i proprietari terrieri assenteisti.

Allontanato da sé il fantoccio liberista, Einaudi chiarirà a più riprese l’essenza della sua posizione economica. Troppo spazio richiederebbe qui l’affrontare la querelle che vide contrapposto lo stesso Einaudi all’altro grande pensatore liberale, Benedetto Croce, sul tema dei rapporti tra il liberalismo politico ed il liberalismo economico. Sia detto di passata: querelle che in realtà fu per molti aspetti più apparente che reale.

Dicevo: non a caso Einaudi, nello scansare il fantoccio costruito dai suoi avversari, si richiama ad Adam Smith.
Dallo scozzese, infatti, Einaudi non ereditò solo il chiaro empirismo, ma ancora prima il fondamento morale, prima che economico, della sua impostazione anche economica.

Tanto Smith quanto Einaudi, infatti, furono, prima che economisti, dei moralisti, ovvero degli studiosi della morale umana. Sarebbe impossibile pienamente comprendere La Ricchezza delle Nazioni senza aver letta e metabolizzata la Teoria dei Sentimenti Morali dello scozzese, così come è riduttivo tentare di qualificare il pensiero economico einaudiano senza partire dal fondamento morale della sua personale interpretazione del liberalismo tout court e del liberalismo economico.

Già nel corso del primo dopoguerra, e siamo nel 1920, Einaudi si premurerà di respingere le invocazioni di coloro i quali, dopo il flagello del conflitto mondiale e i timori del biennio rosso, anelavano “l’uniformità, il comando, l’idea unica a cui tutti obbediscano, il Napoleone”(3), in conformità ad un apparente bisogno dell’animo umano, il quale “rifugge dai contrasti, dalle lotte di uomini, di partiti, di idee, e desidera la tranquillità, la concordia, la unità degli spiriti, anche se ottenuta col ferro e col sangue”(4).

A tali invocazioni Einaudi rispondeva fermamente, tanto da voler abbozzare un “inno, irruente ed avvincente … alla discordia, alla lotta, alla disunione degli spiriti”. Perché, si chiede Einaudi, si dovrebbe mai volere che lo stato abbia un proprio ideale di vita a cui “debba napoleonicamente costringere gli uomini ad uniformarsi… perché una sola religione e non molte, perché una sola opinione politica o sociale o spirituale e non infinite opinioni?”.

Nel rispondere a queste domande retoriche Einaudi fa ricorso al tema classico del conflittualismo liberale, il tema che sessant’anni prima era stato magnificamente esposto nel volume On Liberty di John Stuart Mill. Ed anche qui il richiamo non è affatto casuale: nel 1925, e siamo nel pieno della temperie fascista, Einaudi scriverà una breve ma intensa prefazione alla edizione di On Liberty edita da Piero Gobetti, descrivendo il libro del filosofo ed economista inglese come “il libro di testo di una verità fondamentale: l’importanza suprema per l’uomo e per la società di una grande varietà di tipi e di caratteri e di una piena libertà data alla natura umana di espandersi in innumerevoli e contrastanti direzioni”.

Questa sintesi einaudiana fa il paio con il principio milliano (5) “la verità può diventare norma di azione solo quando ad ognuno sia lasciata amplissima libertà di contraddirla e di confutarla. È doveroso non costringere un’opinione al silenzio, perché questa opinione potrebbe essere vera. Le opinioni erronee contengono sovente un germe di verità. Le verità non contraddette finiscono per essere ricevute dalla comune degli uomini come articoli di fede (…) la verità, divenuta dogma, non esercita più efficacia miglioratrice sul carattere e sulla condotta degli uomini”.

Violando queste massime liberali perché protettive del conflitto di idee e di opinioni, prevale l’aspirazione all’unità, all’impero di uno solo: vana chimera, per dirla con Einaudi, l’aspirazione di chi abbia “un’idea, di chi persegue un ideale di vita e vorrebbe che gli altri, che tutti avessero la stessa idea ed anelassero verso il medesimo ideale” (6).

Così, però, ammonisce l’economista piemontese, non deve essere: “il bello, il perfetto non è l’uniformità, non è l’unità, ma la varietà ed il contrasto”. Da queste premesse, che sono come si è visto premesse di indole etica e morale, deriva la vera obiezione di Einaudi contro i sostenitori dei regimi collettivisti, o pianificatori, o protezionisti.

Al liberalismo, infatti, ripugna un assetto collettivista in quanto in un simile assetto, affinché possa funzionare, non può esistere libertà dello spirito, libertà del pensiero, in quanto quei regimi economici – se si escludono i modelli comunitari volontari tipici, ad esempio, dei vecchi conventi, o dei tentativi degli Owen, dei Cabet, dei Fourier di creare società comunistiche – devono necessariamente fare affidamento ad una struttura gerarchica della società, in cui il rapporto tra uomo e uomo non può essere rapporto improntato al principio di libertà bensì al suo opposto, al principio di dipendenza.

Ed allora, ecco che il parallelo di Einaudi, che poi è l’alternativa tra i due modelli, è rappresentato dalla necessaria ed intima relazione intercorrente tra le istituzioni sociali ed economiche rispetto all’ambizione dell’uomo.

L’uomo moralmente libero, e così la società composta da uomini siffatti e che condividano il sentimento di profonda dignità della persona, non potrà che creare, o tentare di creare, istituzioni economiche simili a sé stesso (7).

In una società dove tutto è dello stato, dove non esiste proprietà privata salvo quella di pochi beni personali, dove la produzione sia organizzata collettivamente, per mezzo di piani programmati centralmente, quali individui avranno maggior facilità di emergere? Non saranno certo i migliori, ammonisce Einaudi, bensì i “procaccianti”, coloro i quali fanno premiare l’intrigo al posto dell’emulazione.

E sarà sempre su queste basi morali ed etiche che Einaudi rifiuterà la nuova economia di Walter Rathenau, ritenendo il tipo di economia proposto dal tedesco come assolutamente inconciliabile con l’idea di stato liberale (8).
Il vero contrasto, infatti, non è tra anarchia ed organizzazione, niente affatto. Il vero discrimine corre tra l’obbligo di adottare un dato metodo di organizzazione, da un lato, e la libertà di scegliere tra parecchi metodi concorrenti, di sostituire l’uno all’altro, di usarne contemporaneamente parecchi o molti.

Il primo metodo è proprio di coloro i quali abbian saggiato il frutto dell’autorità, del comando, mentre il secondo metodo è quello delle persone cui la scienza e l’esperienza abbiano fatto persuase che l’unica, “la vera garanzia della verità è la possibiltà della sua contraddizione, che la principale molla di progresso sociale e materiale è la possibilità di cercare di adottare nuove vie senza il consenso dei dottori dell’università di Salamanca, senza attendere le direttive delle ‘superiori autorità’” (9).

La storia dell’uomo aveva quindi dimostrato la lotta, ed alla fine: la supremazia, di quell’ideale di stato il quale si vuole astenere dall’imporre “agli uomini una foggia di vita. Con le guerre di religione, gli uomini vollero che non ci fosse una unità religiosa imposta dallo stato. Con le guerre di Luigi XIV, di Napoleone, e con quella ora terminata [la Prima Guerra Mondiale, N.dA.] gli uomini combatterono contro l’idea dello stato il quale impone una forma di vita politica, di vita economica, di vita intellettuale. Vinse, e non a caso, quella aggregazione di forze militari, presso cui lo stato è concepito come l’ente il quale assicura l’impero della legge (…) all’ombra del quale gli uomini possono sviluppare le loro qualità più diverse, possono lottare fra di loro, per il trionfo degli ideali più diversi. Lo stato limite, lo stato il quale impone limiti alla violenza fisica, al predominio di un uomo sugli altri, di una classe sulle altre, il quale cerca di dare agli uomini le opportunità più uniformemente distribuite per partire verso mete diversissime o lontanissime le une dalle altre. L’impero della legge come condizione per l’anarchia degli spiriti”(10).

Einaudi, si è detto, non fu un sistematico, non fu un dottrinario. Ma fu coerente. La sua coerenza vedeva perfettamente che per assicurare il pieno sviluppo della personalità umana l’intervento dello stato era non solo opportuno ma necessario. Se infatti lo stabilire i fini e gli obiettivi di una società è opera che spetta ai politici o ai filosofi, il ruolo degli economisti diviene quello di indicare via via i mezzi migliori per il raggiungimento di tali obiettivi. Ma in questo il liberismo non opera come un principio economico, non è qualcosa che si contrapponga al liberalismo etico (11): è una soluzione concreta che gli economisti daranno a quel problema loro affidato per meglio comprendere quale sia lo strumento più perfetto per raggiungere quel fine stabilito dal politico o dal filosofo.

E questi strumenti saranno quelli idonei a condurre la “lotta a fondo contro tutti coloro che nelle industrie, nei commerci, nelle banche, nel possesso terriero hanno chiesto i mezzi del successo ai privilegi, ai monopoli naturali ed artificiali, alla protezione doganale, ai divieti di impianti di nuovi stabilimenti concorrenti, ai brevetti a catena micidiali per gli inventori veri, ai prezzi alti garantiti dallo stato” (12). Ed ancora, saranno necessarie, sempre, le leggi di protezione dei più deboli come le leggi di protezione ed assistenza degli invalidi al lavoro, degli anziani, il divieto di lavoro minorile, l’accesso alla istruzione scolastica per i capaci e meritevoli privi di mezzi, il riconoscimento non solo della libertà sindacale ma della pluralità dei sindacati e del loro ruolo nel pareggiare la forza contrattuale degli imprenditori, ovvero quella stessa libertà (liberale) che aveva fatto alzare la testa agli operai del biellese che Einaudi aveva seguiti e di cui raccontò, ammirato, la dignità delle loro conquiste, elogiando non il socialismo autoritario bensì il socialismo sentimento.

Insomma, per il liberale, e in questo senso: per il liberista, l’intervento dello stato – l’impero della legge – sempre sarà necessario ogni qualvolta non si riesca diversamente a garantire l’uguaglianza dei punti di partenza, senza privilegi di nascita, nella corsa della vita. La corsa, ed il suo esito, dipenderà poi dai talenti di ciascuno – l’anarchia degli spiriti.

Ed all’economista, in ogni caso, spetterà sempre l’ingrato compito di ricordare al politico che vicino alle Oche del Campidoglio, simbolo del successo e della popolarità, si trova la Rupe Tarpea, dove si rischia di finire se non si rispettano le regole ed i principi della buona economia. Perché, dopo tutto, gli economisti piuttosto che esser divisi in fantocci dovrebbero esser divisi, come ricordava Maffeo Pantaleoni, in sole due schiere: da una parte coloro i quali conoscono la scienza economica e, dall’altra parte, coloro i quali non la conoscono.

(1) N. Bobbio, Profilo ideologico del novecento, Milano, 1990, 105.
(2) L. Einaudi, Corriere della Sera, 22 agosto 1948, ora ne Lo scrittoio del Presidente (1948-1955), Torino, 1956, 7-11.
(3) L. Einaudi, Verso la città divina, in Rivista di Milano, 20 aprile 1920. 285-287, ora in L. Einaudi, Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Bari 1954, 32-36.
(4) L. Einaudi, Verso la città divina, op. loc. cit.
(5) J.S. Mill, La libertà (1860), ed. Piero Gobetti, 1925, 3-6.
(6) L. Einaudi, Verso la città divina, op. loc. cit.
(7) L. Einaudi, Il nuovo liberalismo, in La Città Libera, 15 febbraio 1945, 3-6.
(8) L. Einaudi, in La Riforma Sociale, sett.-ott. 1918, 453-458 e passim.
(9) L. Einaudi, ult. loc. cit.
(10) L. Einaudi, Verso la città divina, op. cit.
(11) L. Einaudi, Liberismo e liberalismo, in La Riforma Sociale, marzo-aprile 1931.
(12) L. Einaudi, Lineamenti di una politica economica liberale, Roma, Partito liberale italiano, 1943.

 

 


Un incubo ad occhi aperti. L'eredità di Lenin nella Russia di oggi

 

Tratto da "stradeonline.it/diritto-e-liberta/" Pubblicato il 26 Gennaio 2024 e scritto da Andrea Bitetto

 

La storia non celebra, al massimo ricorda. Ed è altrettanto vero, come sosteneva Croce, che la storia nemmeno esprime giudizi propri: non è giustiziera ma giustificatrice. Caso mai il giudizio che la Storia aiuta a formare andrebbe tratto ed elaborato da chi abbia voglia di frequentare le sue classi e le sue lezioni ed imparare a conoscere il passato. Magari per evitarne errori ed orrori. Ora, poteva mancare il rimpianto per Lenin in occasione del suo centenario della morte? Ovviamente no. Persino la celebrazione del suo sogno infranto, come se quel che avvenne dopo la sua inumazione fosse addebitabile alla sola brutalità di Stalin. Si tratta di un rimpianto infantile e qui ci si limita a prenderli in considerazione come meri fatti. Forse, anzi, come sintomi. Sintomi di un mai sopito disagio di molti che magari vivono in occidente disprezzandolo e si prestandosi a cader vittime delle alcinesche seduzioni di personaggi lontani e sicuramente non commendevoli. Il sogno di Lenin, quello di una società giusta e finalmente mondata dai2/3 vizi dell’umanità – non a caso mito proprio già del giacobinismo francese – non era un sogno, ma un incubo. Non è nemmeno vero che Lenin abbia abbattuto il potere dello Zar in Russia. Quel potere era caduto, sfibrato dalle fatiche della Prima guerra mondiale e da anni di mancate riforme economiche e sociali, e nonostante i risultanti economici della Russia zarista, prima che Lenin scendesse dal predellino del treno. Il Governo provvisorio era capeggiato da Kerenskij, che non era un menscevico né un bolscevico ma un socialista rivoluzionario. Le elezioni per la costituente avevano attribuito ai socialisti rivoluzionari ampia maggioranza, circa il 60% dei voti, mentre i bolscevichi avevano un quarto dei consensi. E quel successo i socialisti rivoluzionari lo ottennero anche grazie allo slogan “la terra ai contadini” e la Russia al tempo era paese che non aveva vissuto la industrializzazione dell’Europa occidentale ed era ancora paese fortemente agricolo. È vero che Lenin, abilmente, imbracciò lo slogan della terra ai contadini unitamente all’altro, “tutto il potere al popolo”. Ma Lenin non aveva alcuna intenzione di riconoscere la proprietà in favore dei contadini. L’unica terra che i contadini russi – i khulaki - videro per opera di Lenin fu quella sotto la quale vennero sepolti. Se e quando vennero sepolti. Per Lenin, infatti, qualsiasi forma di piccola proprietà per i contadini doveva essere vietata perché temeva che la piccola proprietà terriera, come il piccolo commercio, avrebbe condotto di nuovo al capitalismo, ovvero al modello economico occidentale. Fu solo la miseria e l’inefficacia del comunismo di guerra, che aveva impoverito oltre qualsiasi previsione, la popolazione, a spingere nel 1922 alla NEP, la Nuova Politica Economica, in cui ebbe gran parte Bucharin, la mente più sofisticata dei bolscevichi, ed al conseguente transitorio ripristino di forme di piccola proprietà e commercio: la gallina dalle uova d’oro, sempre a sentire Bucharin. Ma era fase che per stessa ammissione dei leader bolscevichi sarebbe finita presto ed avrebbe data la stura alla grande mattanza, in pochi anni. Infatti negli anni ’30 iniziò – o meglio: continuò – il terrore. Ma anche nei confronti della classe operaia, e nonostante gli insegnamenti marxisti, Lenin era scettico. Sapeva benissimo che l’autonomia organizzativa degli operai avrebbe condotto all’associazionismo, e quindi al sindacalismo e quindi al riformismo. In na parola: alla socialdemocrazia. Lo aveva appreso leggendo e rileggendo il volume di S. e B. Webb, Industrial Democracy (1897), in cui i due coniugi socialisti (membri della Fabian Society) avevano esposto chiaramente le dinamiche tipiche delle incipienti democrazie occidentali, e la crescita dei movimenti laburisti, socialdemocratici e socialisti europei. Non a caso, lo stesso Marx aveva in uggia la socialdemocrazia perché sapeva benissimo che l’avanzare della socialdemocrazia avrebbe tagliato l’erba sotto i piedi alla rivoluzione.La rivoluzione, quindi, non la avrebbero mai fatta le classi sociali degli oppressi: né i contadini, destinati a vivere la terra in modo infausto, né gli operai, a rischio di utilizzare la recuperata libertà per associarsi ed emanciparsi. La rivoluzione passava solo tramite il partito e la sua avanguardia. Gli individui erano irrilevanti. E sacrificabili senza alcun rimorso. L’obiettivo di Lenin era quello di fermare l’occidentalizzazione della Russia. Questo progetto era chiaramente espresso nei suoi scritti: ne La grande malattia, Lenin individua la malattia nella politica liberale operaia. E tale malattia, in linea con il mito sanguinario giacobino, doveva esser radiata, estirpata. Non sarà un caso che i sovietici celebreranno, anche cinematograficamente con l’opera di Eisenstein, lo Zar Ivan il Terribile: lo Zar anti occidentale. Ora, questo anti occidentalismo spiega la nostalgia infantile per Lenin, e forse le simpatie attuali per altri leader che hanno recuperato, nella Russia di oggi, i miti anti occidentali delle storia russa. Quello di Lenin non era un sogno infranto all’alba del gennaio del 1924. Era un incubo ad occhi aperti.

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