Franco Chiarenza ed Enrico Morbelli ( a sinistra nella foto)

 

Antifascismo

( F. Chiarenza, Il Liberale Qualunque, pp. 339-348 )

 

Dopo la caduta del fascismo nasce il concetto di anti-fascismo, inteso come fondamento di convergenza tra diverse posizioni ideologiche da porre alla base del nuovo patto di convivenza nazionale.

Finita la guerra e sconfitto il fascismo, il concetto di “antifascismo”, per i profondi equivoci e le contraddizioni che in esso si riscontravano, non poteva più bastare. L’antifascismo era costituito da due orientamenti fatalmente destinati a scontrarsi: quello democratico e liberale (comprendente anche la maggior parte dei cattolici e una quota consistente di socialisti) che puntava alla costruzione di uno stato che rappresentasse un allargamento di quello risorgimentale nel segno della continuità e della difesa del pluralismo politico, e l’altro – fatto proprio da comunisti e una parte dei socialisti – distante dalla concezione di democrazia liberale e che – come scrive Giovanni Orsina – comportava “una trasformazione profonda della cultura, dell’economia, della società, della politica italiane, identificando come proprio avversario – e perciò come ‘fascista’ – chiunque a quella trasformazione si opponga, pure se fascista in senso stretto non era stato mai, e anzi al fascismo storico si è magari opposto”.

 

Lotta partigiana

Giorgio Napolitano, quando era presidente della Repubblica, ha sostenuto che “la libertà su cui poggiano le nostre istituzioni, la libertà di cui gode nel nostro Paese ogni forza politica, sociale e culturale di ogni cittadino viene da quei lunghi venti mesi di lotta partigiana e di movimento di liberazione”.

Vorrei che fosse così, ma così non fu. La libertà su cui poggiano le nostre istituzioni viene dagli inglesi e dagli americani che occuparono il nostro Paese liberandolo dai nazisti e imponendo, anche a chi non li condivideva, i principi liberali e democratici su cui si è costituita la Repubblica. Se al loro posto ci fossero stati i russi dubito fortemente dei destini della nostra democrazia, come dimostra l’esperienza dei paesi dell’Europa orientale, e la stessa vicenda di Trieste e dell’Istria. Dove, non dimentichiamolo, nei giorni terribili dell’occupazione da parte delle truppe jugoslave nel 1945, i comunisti italiani si schierarono con la dittatura comunista di Tito contro i diritti di auto-determinazione dei triestini e degli istriani e contro gli interessi nazionali del proprio Paese dove si stava faticosamente costruendo una democrazia pluralista; pro memoria per i tanti che sostengono ancora oggi che i comunisti italiani erano “diversi” e autonomi rispetto agli interessi del blocco sovietico (che allora comprendeva ancora la Jugoslavia). Giorgio Napolitano in quegli anni era già un importante dirigente del partito comunista.

 

Resistenza

Sulla effettiva valenza storica e morale della Resistenza, sull’influenza che ha avuto nella nascita della Repubblica, si discute da sempre. I difensori della Resistenza “dura e pura” sembrano arroccati intorno al mito resistenziale, un po’ come avvenne dopo l’unificazione per il mito risorgimentale.

A scanso di equivoci va premesso che la Resistenza è stata innanzi tutto una lotta in nome della libertà contro i nazisti e i loro alleati fascisti condotta da formazioni partigiane dopo l’8 settembre 1943, quando con l’armistizio l’Italia ruppe la sua alleanza con la Germania. Nessun dubbio può sussistere per un liberale su quale fosse non soltanto la parte giusta (dal punto di vista ideologico) ma anche quella più legittima (sul piano istituzionale). Il fatto che i comunisti, dopo la fine della guerra, abbiano tentato di impadronirsi della memoria della Resistenza accreditando l’immagine di un movimento rivoluzionario composto soprattutto da partigiani comunisti, affiancati solo marginalmente da cattolici e laici socialisti, nulla toglie al fatto incontestabile che furono invece numerose le brigate indipendenti di ex-militari e di monarchici (importanti soprattutto in Piemonte); gli agiografi “resistenziali” si sono dilungati sulle figure di Valiani, Parri, Pertini, Moscatelli, Bentivegna, Longo, ma raramente hanno citato, per esempio, il generale Alfredo Pizzoni, che pure fu presidente del Comitato di Liberazione Nazionale per l’Alta Italia, personaggio di grande rigore morale, non inquadrabile in alcun partito, il cui prestigio fu indispensabile per i rapporti con gli anglo americani (che, non dimentichiamo, sostennero la Resistenza con la distribuzione di armi e finanziamenti pari a un miliardo e mezzo di lire dell’epoca).

Vi fu anche una Resistenza liberale (basti per tutti il nome di Edgardo Sogno). E fu sostanzialmente liberale la posizione di quanti, senza settarismi ideologici, si impegnarono anche militarmente nel movimento partigiano al fine prevalente di cacciare i tedeschi e sconfiggere i loro alleati fascisti.

Oggi finalmente il passaggio generazionale consente di rimuovere il manto protettivo con cui i comunisti avvolsero l’unica Resistenza a cui parteciparono. Riemergono altre eroiche resistenze: cominciando da quella di Roma quando all’indomani dell’armistizio studenti e militari cercarono di impedire l’occupazione della Capitale da parte dei tedeschi, continuando con Cefalonia, dove i militari italiani rifiutarono di arrendersi ai tedeschi e furono massacrati, ovvero quella della corazzata “Roma” affondata dai tedeschi dopo il rifiuto dell’ammiraglio Carlo Bergamini di consegnare la nave, e quella dei soldati italiani che difesero dai tedeschi l’isola di Lero, e, in Italia, la resistenza dei militari italiani in Sardegna, la creazione del Corpo italiano di liberazione che affiancò nel centro-sud le truppe inglesi e americane, e molti altri episodi di grande spessore ideale (con risvolti militari non secondari) che vengono spesso trascurati dalle rievocazioni mediatiche. Non bisogna dimenticare, in questo contesto, il dramma spesso eroico vissuto da oltre 600.000 militari italiani rinchiusi dai tedeschi nei campi di concentramento dopo l’8 settembre, i due terzi dei quali rifiutarono di arruolarsi nelle formazioni fasciste della R.S.I. (malgrado ciò consentisse il loro rimpatrio) “resistendo” in condizioni terribili nei campi di prigionia per restare fedeli al giuramento al re.

Purtroppo di questo forte impegno non si tenne alcun conto nella conferenza di pace di Parigi che impose condizioni durissime al nostro Paese; già nell’aprile 1944 “Risorgimento Liberale” aveva ammonito che se l’Italia doveva essere considerata “una nazione vinta cui altro dovere non incombe se non quello di accettare, senza discutere, la legge del vincitore non si vedrebbe per quale ragione dovrebbe essa sacrificare le vite dei suoi figli e le sue ultime risorse finanziarie.”. Ma fu proprio ciò che avvenne, in piena violazione delle promesse che Eisenhower aveva fatto a Badoglio in occasione della firma dell’armistizio. Tuttavia quando alla conferenza di pace di Versailles De Gasperi finì di parlare in un’aula ostile e prevenuta, l’unico che si alzò e andò verso di lui per stringergli la mano fu il rappresentante degli Stati Uniti d’America.

La Resistenza si rese anche responsabile di delitti ingiustificati che furono perpetrati in suo nome; Giampaolo Pansa, pur provenendo da una cultura politica di sinistra, ha raccolto in proposito fatti e documenti impressionanti.

Giampaolo Pansa ha avuto perfettamente ragione a riesumare vicende drammatiche (ventimila vittime) tanto più gravi perché avvenute dopo la cessazione della guerra e la resa dei tedeschi e dei loro alleati fascisti “repubblichini”. Non solo per un doveroso omaggio alla verità storica, ma anche perché esse rappresentano la dimostrazione che una parte non irrilevante dei partigiani, più o meno consapevolmente, non considerarono la Resistenza soltanto un conflitto contro fascisti e tedeschi, ma soprattutto un avvio decisivo a una rivoluzione che avrebbe dovuto instaurare in Italia un regime comunista ispirato al modello leninista sovietico (come avvenne di fatto nel giro di pochi anni in tutti i paesi dell’Europa dell’est liberati dalle truppe sovietiche). Molti degli omicidi compiuti dai partigiani rossi furono diretti non tanto contro i fascisti (il che rappresenterebbe una vendetta deprecabile ma comprensibile) ma soprattutto contro i non-comunisti – anche partigiani – visti come potenziali oppositori degli assetti di potere che si intendeva realizzare. D’altronde il massacro della brigata partigiana Osoppo da parte dei comunisti nel 1945 allo scopo di favorire l’occupazione jugoslava della Venezia Giulia aveva già dato un’indicazione inequivocabile su quali fossero le intenzioni della Resistenza rossa.

Emblematico il caso di Dante Facio, valoroso comandante partigiano, fucilato dai compagni comunisti perché non allineato alle loro posizioni ideologiche; nel 1963 gli fu conferita una medaglia d’argento alla memoria con la motivazione che era stato ucciso dai nazi-fascisti, e solo dopo molti anni emerse la verità. Quanti furono i “casi Facio”?

Naturalmente gli ex-comunisti respingono questa interpretazione storica sostenendo la loro lealtà democratica e pluralista sin dalle origini; essi ritengono perciò che i fatti denunciati siano stati soltanto “deplorevoli eccessi” da attribuire a frange armate incontrollabili. Tanto più che all’epoca dei fatti le truppe inglesi e americane occupavano il Paese, il che rendeva quanto meno improbabile una soluzione politica rivoluzionaria filo-sovietica. Eppure avvenne proprio che una parte importante del PCI., quella più radicata nella Resistenza, interpretò la cosiddetta svolta di Salerno compiuta da Togliatti nel 1944, quando il leader comunista sbarcato in Italia dall’Unione sovietica riconobbe la legittimità del governo monarchico di Badoglio, come un momento tattico (e anche così digerito con difficoltà) a cui sarebbe inevitabilmente seguita una rivoluzione socialista (nel senso leninista del termine). Togliatti invece sapeva benissimo, come risulta dagli archivi sovietici e del PCI, che si trattava di una presa d’atto definitiva perché, nella situazione internazionale venutasi a creare dopo la guerra, la delimitazione delle rispettive zone d’influenza era divenuta irreversibile. Secondo Stalin (e Togliatti) la strategia comunista nei paesi occidentali doveva seguire percorsi diversi da quelli che poterono essere utilizzati nell’Europa dell’est. Bisognava accettare le regole pluralistiche della “democrazia formale” e sconfiggere la borghesia capitalistica sul terreno del libero confronto elettorale, puntando sulle difficoltà economiche e sulle condizioni precarie della classe lavoratrice, abbastanza evidenti soprattutto in Italia e in Francia.

Ma per far comprendere questa strategia non rivoluzionaria alla base comunista, specialmente nelle regioni rosse dell’Emilia Romagna, Toscana e Umbria, ci volle tempo e pazienza, e il processo di assimilazione del metodo democratico non fu esente da frustrazioni che dovevano riflettersi nelle motivazioni del terrorismo rosso della generazione successiva. Era, almeno in parte, la rivoluzione mancata dei loro padri nel 1945 quella che i giovani brigatisti inseguivano negli anni Settanta.

 

Einaudi sempre attuale

Franco Chiarenza, 24 gennaio 2019.

 

 

Con una cerimonia solenne nella sede della Banca d’Italia, alla presenza del Capo dello Stato e del presidente del Consiglio, è stato presentato qualche giorno fa il primo volume dell’edizione nazionale delle opere di Luigi Einaudi. Un’occasione per il governatore Visco di ribadire alcune preoccupazioni molto attuali e per il curatore Pier Luigi Ciocca di ricordare alcuni passaggi fondamentali del pensiero di Einaudi. Un’opportunità per un liberale qualunque come me per riflettere ancora una volta sulla sua eccezionale personalità.

 

Einaudi presidente

Non avrebbe mai potuto immaginare che la sua lunga esistenza politica si sarebbe conclusa al Quirinale, in quel palazzo che aveva ospitato papi e re, e che lui stesso – monarchico – rispettava come simbolo dell’unificazione nazionale. Ci arrivò in un momento difficile di passaggio istituzionale dal regno dei Savoia alla nascita della Repubblica in seguito a un referendum che aveva profondamente lacerato il Paese. La sua presidenza costituiva un precedente nel quale avrebbero in qualche misura dovuto riconoscersi i successori, un esempio per un’opinione pubblica incuriosita dalla novità, una garanzia per i monarchici che la loro preferenza istituzionale non sarebbe stata oggetto di discriminazione (come invece, necessariamente, si doveva fare in quel momento nei confronti dei nostalgici del fascismo).

Einaudi seppe svolgere il suo compito con uno stile ineguagliabile, unendo alla modestia personale un rispetto per le forme necessariamente solenni del ruolo istituzionale, utilizzando tutti gli strumenti che la Costituzione gli riconosceva per esercitare un ruolo di persuasione e di controllo sugli atti di governo. Non per questo smise di scrivere; lo “Scrittoio del Presidente” rappresenta una testimonianza preziosa di questa sua esperienza e, con le più note “Prediche inutili”, un testamento politico fondato sulla convinzione che la nuova classe dirigente dovesse con l’esempio, con chiare scelte politiche ed economiche, favorire la crescita morale e materiale del popolo italiano che usciva dalla terribile esperienza del fascismo e della seconda guerra mondiale

 

Einaudi economista

Einaudi era certamente un sostenitore dell’economia di mercato. Ma, proprio per questo, riteneva che il sistema italiano ereditato dal fascismo fosse lontano da quel modello, dato il peso che in esso avevano ancora le corporazioni, i monopoli, i vincoli di ogni genere che caratterizzavano la presenza dello Stato. Ma non era contrario all’intervento pubblico per principio; al contrario lo riteneva necessario quando serviva a garantire l’uguaglianza delle opportunità, quando cioè era finalizzato ad assicurare quanto più possibile le condizioni minime di partenza nella competizione esistenziale. Da qui l’importanza che Einaudi attribuiva alla scuola e alla sua capacità di rispondere efficacemente alle esigenze della società; da qui la sua ostilità al riconoscimento legale del titolo di studio che favorisce inevitabilmente la mediocrità a scapito della competenza. Nella sua concezione la scuola avrebbe dovuto essere diffusa ovunque secondo i diversi livelli di formazione, severa quanto basta per operare una giusta selezione, attenta a promuovere competenze da riversare sul mercato del lavoro, sensibile all’innovazione, in grado sostanzialmente di consentire a chiunque di possedere le conoscenze necessarie per potere deliberare consapevolmente nelle scelte che la società civile impone a ciascuno dei suoi componenti. Così non è stata e ne paghiamo le conseguenze anche in termini di coesione sociale.

Il medesimo principio valeva negli assetti produttivi; toccava allo Stato intervenire nelle infrastrutture necessarie e ogni qual volta potesse svolgere un ruolo di “volano” per lo sviluppo. Temeva però come la peste – ben conoscendo i vizi della classe politica – che strumenti pensati per realizzare tali compiti finissero per trasformarsi in giganteschi serbatoi di sottogoverno. La questione morale e le teorie economiche erano nel suo pensiero strettamente associate. Da qui la sua diffidenza per i colossi statali come l’IRI e l’ENI, troppo grandi e potenti per essere controllati dalla politica ma, al contempo, troppo infestati da logiche politiche clientelari per svolgere una funzione di sostegno all’iniziativa privata sufficientemente elastica da assecondare le variabili di un mercato sempre più ampio.

 

Einaudi governante

Come governatore della Banca d’Italia e poi ministro dell’Economia operò scelte molto nette: lotta all’inflazione (da lui considerata la più iniqua delle tasse perché colpisce maggiormente in proporzione chi meno ha), stabilità monetaria e contenimento del debito pubblico. Si deve a quelle decisioni (e a quelle successive di apertura dei mercati al commercio internazionale) se il Paese poté riprendersi con una velocità che stupì tutto il mondo, creando quel “miracolo” economico degli anni ’50 che miracoloso non fu ma semplicemente il frutto di scelte lungimiranti e di buon senso che non tutti avevano inizialmente apprezzato. Il futuro dell’Italia nell’idea di Einaudi coincideva con quello dell’Europa, la quale soltanto mettendo insieme le proprie risorse e le diverse espressioni culturali avrebbe potuto ritrovare un ruolo importante nella nuova distribuzione delle egemonie politiche che si stava delineando nel mondo. Se fosse vivo oggi si riconoscerebbe nello slogan “Più Europa”.

All’Europa Einaudi affidava anche le sue speranze perché fosse finalmente abbattuto il muro dei privilegi corporativi che impediva lo sviluppo del Paese nel cruciale settore dei servizi; un fardello che ancora oggi frena l’innovazione e pesa sulla crescita almeno quanto l’esistenza di un debito pubblico ingestibile. E in effetti quel poco che si è riusciti a liberalizzare lo si deve ai trattati europei. Ma la strada da percorrere è ancora lunga; restano ancora radicati negli italiani alcuni vizi che hanno ereditato dalla loro storia, tra i quali quello di cercare sempre nella protezione dello Stato la risposta a tutti i problemi, anche di quelli che potrebbero risolvere da soli.

 

Einaudi giornalista

Molti non ricordano che Einaudi è stato anche un grande giornalista, sin dalle sue origini. Dalla pratica giornalistica ha ereditato probabilmente la sua scrittura rigorosa ma semplice e sempre comprensibile, convinto che la divulgazione corretta è altrettanto importante della competenza scientifica. E’ stato un collaboratore storico del “Corriere della Sera” prima dell’avvento del fascismo e dopo la caduta di quel regime; ma la sua firma compariva spesso anche sull’Economist. Nel periodo tra le due guerre, impedito nell’attività politica, diresse riviste specializzate di grande rilievo come “Riforma sociale” e “Rivista di storia economica”. Molto sensibile al tema della libertà di informazione, da lui giustamente considerato cruciale per le democrazie liberali, si schierò contro la decisione della DC di mantenere l’Ordine dei giornalisti, creato dal fascismo per controllare i giornalisti.

 

La terra di Einaudi

La famiglia Einaudi era molto legata alla terra, rivelando in ciò le antiche origini contadine. Anche Luigi Einaudi era attaccato a quel mondo, ai suoi riti, ai suoi valori; da lì aveva tratto quei convincimenti sull’importanza della competenza, del rigore morale, della concezione del rischio come fattore ineludibile dell’esistenza per affrontare il quale occorre prepararsi senza contare troppo sulla protezione dello Stato. Principi che aveva messo in atto nel podere di San Giacomo a Dogliani che lui stesso aveva acquistato dai conti Marenco e del quale si occupava attivamente nei momenti liberi e dove si rifugiava per scrivere e meditare. Anche da Presidente non mancò mai a una vendemmia, e ancora oggi un bicchiere di dolcetto Einaudi vale una gita in quei luoghi bellissimi, a contatto con le valli che hanno visto il fiorire di eresie protestanti le quali hanno lasciato un’eredità culturale che per secoli ha garantito il mantenimento di valori liberali fondamentali nella costruzione del Piemonte moderno, primo mattone dell’unità d’Italia.

 

 

Ei fu. De Berlusconibus

Franco Chiarenza da " Il liberale qualunque"


Così avevo titolato il mio “pezzo” sul Cavaliere, faticosamente elaborato su sollecitazione dei pochi affezionati lettori di questo blog,
stupiti che il “liberale qualunque” non avesse nulla da dire sull'inventore del “partito liberale di massa”.
In effetti con una mossa a sorpresa, di quelle in cui eccelleva, avendolo letto in anteprima come è possibile soltanto ai fantasmi,
“lui” ha spinto il mio dito sul tasto sbagliato del computer e in un secondo tre cartelle si sono evaporate.
Forse è meglio così: il tempo trascorso mi consente di essere più tollerante.

Comincio da capo al netto di tante celebrazioni, beatificazioni, dannazioni, commenti psico-sociologici, compiacenze morbose sul suo harem continuamente rinnovato, analisi dettagliate sulla complessa giurisprudenza che ha caratterizzato il suo rapporto con la magistratura.
Ei fu. Chi fu in realtà poco importa: un furbo palazzinaro? Un imprenditore che aveva capito prima di altri l'importanza fondamentale della televisione?
Un abile piazzista che raccoglieva i voti con le stesse tecniche usate per conquistare i consumatori? Un presidente straordinario di una squadra di calcio? Oppure un imbroglione funambolo che riusciva abilmente a mescolare la dimensione pubblica con quella dei suoi interessi privati?
Un mafioso espresso dalla “cupola”?
Un massone nascosto nella P2 di Licio Gelli?

Fu tutto questo ed altro; fu – come ha detto nella sua omelia l'arcivescovo di Milano – un uomo che amava la vita.
E l'amava talmente da cospargere intorno a se un'immagine falsa di piaceri illimitati, di relativismo morale, di ottimismo costruito sull'illusione che chiunque potesse plasmare la propria esistenza sul modello che impersonava.

Ma – ripeto – al liberale qualunque chi fosse Berlusconi, per quali motivi decise – dopo il fallimento di Mario Segni – di scendere in politica, con quali risorse abbia costruito il suo impero non importa granchè; voglio astenermi da qualsiasi giudizio morale. Importa invece cosa ha fatto (o non ha fatto) nella dimensione politica.
Chi è stato dunque l'uomo politico Silvio Berlusconi che ha dominato la scena come nessun altro negli ultimi quarant'anni?

Un liberale?

Domanda lecita perchè tale sempre si è dichiarato.
Peccato che non lo sia mai stato, non per ostilità preconcetta ma semplicemente perchè non sapeva cosa significava esserlo.
Concetti come stato di diritto, libertà di espressione, tolleranza per le diversità, pluralismo politico, dialettica parlamentare, ecc. erano lontanissimi dal suo modo di pensare; aveva una vaga idea del liberismo economico (che è altra cosa dal liberalismo) che si esprimeva in un “laissez faire, laissez passer” tradotto concretamente in continui compromessi con le forze in gioco con cui necessariamente doveva confrontarsi.

Si potrà obiettare che però di “liberali doc” si era circondato, soprattutto nei primi tempi: Biondi, Urbani, Altissimo (con qualche riserva), Pera, Martino, Costa, e molti altri.
Ciò avvenne perchè con lo scioglimento traumatico del PLI i liberali erano rimasti senza casa e alcuni di essi ritennero che Berlusconi col suo impeto dirompente e la sua ingenuità politica potesse non soltanto fornirgliene una ma anche lasciarsi guidare nella sua conduzione.
Le cose andarono diversamente e dopo essersene servito per dare una vernice di credibilità alla propria leadership il cavaliere
li abbandonò al loro destino.

Un socialista?

No, se non altro perchè rifuggiva da ogni tentazione egualitaria e di Marx e Lenin conosceva quel tanto che bastava per farne oggetto del suo anti-comunismo viscerale che esibiva in ogni occasione e su cui fondava la propria legittimazione di leader della destra.
Ma fu amico di Craxi senza il cui aiuto non avrebbe mai potuto realizzare quel duopolio televisivo che è stato decisivo per il suo successo.
Nel progetto craxiano le televisioni private dovevano servire a contrastare la cultura catto-comunista che occupava nella RAI posizioni preminenti, ma al di là di ciò tra il segretario socialista e Berlusconi non vi fu mai un disegno politico condiviso.
Craxi immaginava un futuro bipolare di tipo tedesco con un partito conservatore di ispirazione cristiana e una social-democrazia in grado di raccogliere le istanze ideali della sinistra.
Berlusconi invece ammirava i modelli paternalistici e illiberali dei regimi autoritari come quelli che si erano affermati in Russia, in Ungheria, in Turchia.

Però se socialista non fu, dei socialisti, anch'essi rimasti orfani dopo l'abbattimento di Craxi, largamente si servì, non soltanto per alimentare i quadri delle sue televisioni ma anche per ereditare gran parte dei loro quadri dirigenti specialmente a Milano. Ex socialisti come Tremonti, Brunetta e tanti altri furono, a fasi alterne, suoi collaboratori diretti.

Un fascista?

No, fascista non fu mai; al contrario, proveniva da una tradizione familiare anti-fascista. Ma con i neo-fascisti invece stabilì rapporti cordiali convincendoli a mandare in frantumi le anticaglie nostalgiche prive di prospettiva per trasformarsi in un moderno partito nazionalista;
trovò in Fini l'interlocutore adatto e soltanto così potè realizzare l'unica vera operazione politica che – nel bene o nel male – gli va attribuita: l'alleanza elettorale con la Lega al nord e con AN al sud, imperniata sulla sua personale fideiussione politica.
Forza Italia , che partito non era né di nome né di fatto, rappresentò il collante attorno al quale la destra dimostrò di essere maggioritaria nell'elettorato.

Un conservatore?

Dipende da cosa si intende per tale.
Il mondo imprenditoriale, salvo poche eccezioni, accolse la sua vittoria elettorale come una svolta decisiva per sconfiggere definitivamente il dirigismo corporativo che soffocava il Paese (i famosi “lacci e lacciuoli” stigmatizzati da Guido Carli) ma in realtà tutte le proposte dell'ufficio studi di Confindustria si sono arenate fuori dai cancelli di Arcore perchè la vera scelta del presidente fu quella di lasciare tutto com'era fingendo di cambiare tutto: una perfetta sintesi della filosofia gattopardesca che coincideva in maniera impressionante non tanto con la vecchia DC (che era una costruzione complessa al cui interno convivevano differenti strategie politiche e sensibilità sociali) quanto piuttosto con la prassi di governo della sua parte più conservatrice, i cosiddetti “dorotei”.

Nè né.

Penserà la storia, man mano che il tempo avrà steso il suo manto pietoso sulle imperfezioni umane del personaggio, ad approfondire la figura complessiva di Silvio Berlusconi.
Ma da liberale non posso esimermi dall'affermare che la sua leadership, intrinsecamente rivoluzionaria per il modo in cui aveva sconfitto i progetti per trasformare l'Italia in un laboratorio politico dirigista e neutralista egemonizzato da una sinistra intrinsecamente illiberale
(come si profilava il compromesso storico immaginato da Moro e Berlinguer) è stata un'occasione tradita.
Non per la mancata costituzione di un “partito liberale di massa”, ma per non avere avviato – avendone la possibilità –
quella rivoluzione culturale liberale che l'Italia attende sin dal compimento della sua unità.

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