Leonardo Sciascia. Passione, Ragione e Ironia
Elio Cappuccio 28 Gennaio 2021 tratto dal Blog della Fondazione Luigi Einaudi Onlus
L’opera di Leonardo Sciascia, come la sua vita, e sempre stata votata ad una incessante ricerca
della verita, animata, con spirito illuministico, dalla ragione critica e dal dubbio. Questo stile di
esistenza e di scrittura ha consentito a Sciascia di accostarsi a questioni che potevano riguardare
la politica, la fede, il diritto, con un atteggiamento profondamente laico, che non gli rese facile
la sua breve esperienza di consigliere comunale (eletto come indipendente nelle liste del del
P.C.I.) a Palermo, dal 1975 al 1977.
Candido, pubblicato proprio nel 1977, quando si conclude, con le dimissioni, la sua vicenda in
consiglio comunale, esprime chiaramente la distanza di Sciascia da ogni concezione ideologica
della politica. Egli avverte un maggior senso di liberta in Hugo e Zola che in Marx. I primi, a suo
avviso, sembrano guardare al passato, ma si proiettano in realta verso il futuro, mentre Marx
sembra indicarci il futuro, ricordandoci pero il passato. E’ qui evidente che Sciascia attribuisce
alla letteratura una dimensione utopica che non riconosce nei movimenti rivoluzionari,
destinati, quasi sempre, a trasformare i sogni in incubi. Sciascia non riusciva a comprendere
come, dopo la rivolta ungherese del 1956 e dopo l’intervento sovietico a Praga nel 1968, i
comunisti non mettessero radicalmente in questione, in Occidente, il loro rapporto con l’Unione
Sovietica. Non avrebbe mai potuto condividere la convinzione di Giancarlo Pajetta, per il quale
tra la verita e la rivoluzione sarebbe sempre stato giusto scegliere la rivoluzione. Non riusciva
inoltre ad accettare la strategia del compromesso storico, ritenendo che l’alleanza fra comunisti
e democristiani avrebbe consolidato un sistema di potere che, in Sicilia particolarmente, si
manifestava in modo arrogante e violento. La sua avversione al consociativismo e il suo impegno
in difesa delle liberta civili lo avvicino cosi, sempre piu, a Marco Pannella e ai Radicali.
Il Candido di Sciascia riprendeva il racconto filosofico volterriano, considerato un modello
ineguagliabile di ironia illuministica, da cui, come accade per ogni opera originale, avrebbero
potuto derivare, per usare un’espressione di Montesquieu, altre cinquecento o seicento opere.
Candido, che si trova a vivere nell’Italia del secondo dopoguerra, tra ex fascisti divenuti
devotamente democristiani o comunisti, si avvicina al P.C.I. con grandi speranze, che presto
lasceranno il posto a profonde delusioni. Pensa di donare una sua proprieta in vista della
costruzione di un ospedale, ma prende atto che il partito difende altri interessi, e non gradisce
la donazione.
Lasciata la Sicilia, Candido si mette in viaggio e si ferma a Torino con la cugina Francesca. Qui
comincia a frequentare una sezione del P.C.I. Durante una riunione i compagni dicevano che
bisognava essere pronti ad abbandonare l’Italia nel caso di un colpo di Stato, ritenuto da loro
imminente. Nel sentire che le mete indicate erano la Francia, il Canada, l’Australia, Candido
chiese come mai nessuno pensasse all’Unione Sovietica. Non ci fu risposta : “alcuni lo
guardarono torvamente, altri mugugnarono”. Qualche giorno dopo seppe, “che i compagni lo
consideravano ormai, per le battute di quella sera, un provocatore”. Ne rimase amareggiato
fino a quando, tornando una sera da una di quelle riunioni, Francesca disse : “E se fossero
soltanto degli imbecilli?”. Fu questo, scrive Sciascia, “il principio della liberazione, della
guarigione”.
Giunto a Parigi, che appare come il luogo della ragione, libera da ogni principio d’autorita,
Candido si sentira svincolato da ogni appartenenza e acquisira pienamente la propria
autonomia. Ripensera allora alle parole del proprio mentore, Don Lepanto, il quale,
diversamente dall’ingenuo Pangloss del Candide volterriano, si proponeva, come un saggio
scettico, di coltivare il proprio giardino, quel retrobottega, avrebbe detto Montaigne, che
rappresenta il luogo privilegiato della nostra liberta e della nostra autonomia, che dobbiamo
difendere da ogni ingerenza esterna.
La scelta di allontanarsi dal comunismo, che costitui un trauma per molti intellettuali, diviene,
per Candido-Sciascia, una soluzione liberatoria, come dovette esserlo per quanti si sentivano
di nessuna chiesa, come avrebbe potuto dire Giulio Giorello. In una lettera al Cardinale
Pappalardo del 1976 Sciascia scriveva che si e atei come si e cristiani, imperfettamente sempre.
Avrebbe condiviso l’opinione di Bobbio, secondo cui, piuttosto che tracciare la differenza tra
credenti e non credenti, bisognerebbe distinguere tra chi cerca e chi non cerca.
Il 10 gennaio 1987 Sciascia pubblica, sul Corriere della sera, I professionisti dell’antimafia, in cui
critica il criterio seguito dal Csm nella nomina di Paolo Borsellino a procuratore di Marsala.
All’anzianita di servizio, come previsto, si era infatti preferita la particolare competenza di
Borsellino nell’ambito della criminalita di stampo mafioso. Tutto cio, secondo Sciascia, avrebbe
creato un pericoloso precedente, favorendo una sorta di rendita di posizione per quei
magistrati che avessero avuto ambizioni di carriera. Divennero presto chiare, a Borsellino, le
intenzioni di Sciascia, che non aveva sollevato riserve su di lui, ma sul metodo adottato.
Possiamo cogliere, alla luce di quanto in questi anni e accaduto, tutta la valenza profetica
dell’analisi critica di Sciascia.
Il 15 gennaio 1987, su la Repubblica, Giampaolo Pansa si scaglio contro la presa di posizione di
Sciascia, collocandolo nell’ “Italia della palude”. La critica di Pansa fu condivisa da molti settori
della Sinistra e la risposta di Sciascia non si fece attendere. Su L’Espresso del 25 gennaio del
1987 apparve cosi un suo graffiante epigramma: “ Pansa dice che mi pensa \ Dunque Pansa
pensa? \ Ma se Pansa pensa cos’e mai il pensare? \ Forse e solo un pansare.
In questo rapporto conflittuale con l’ Intellighenzia “progressista” viene in mente che nel 1979,
in Nero su nero, Sciascia, con grande spregiudicatezza, aveva individuato la figura del cretino di
sinistra, “mimetizzato nel discorso intelligente, nel discorso problematico e capillare. Si credeva
che i cretini nascessero solo a destra, e percio l’evento non ha trovato registrazione”.
L’impegno civile di Sciascia si manifesto, con grande generosita, in occasione del processo a
Enzo Tortora. Su Panorama del 7 settembre 1986 critico energicamente la requisitoria del
pubblico ministero Armando Olivares, “bel nome da vice regno spagnolo”, denunciando, in base
alle prove, l’infondatezza dell’accusa e l’errore giudiziario. Non si puo non pensare, in proposito,
a un passo de Il contesto. Il presidente Riches descrive all’ispettore Rogas la sua visione della
giustizia, facendo ricorso al rito della messa. Il sacerdote, afferma con convinzione Riches, “puo
anche essere indegno, nella sua vita, nei suoi pensieri : ma il fatto che sia stato investito
dall’ordine, fa si che ad ogni celebrazione il mistero si compia. Mai, dico mai, puo accadere che
la transustanziazione non avvenga. E cosi e un giudice quando celebra la legge : la giustizia non
puo non disvelarsi, non transustanziarsi, non compiersi”. Nello Stato di diritto, quando i giudici
godono del loro potere invece di soffrirne, scriveva Sciascia, “la societa che a quel potere li ha
delegati, inevitabilmente e costretta a giudicarli”.
Nel momento in cui il potere assoluto del giudice prevale sulle garanzie dell’imputato,
avvertiamo il clima dei tribunali dell’inquisizione o degli stati totalitari. Nel 1947, in Teoria della
verita materiale del processo penale, il giurista sovietico Michail Solomonoviĉ Strogoviĉ si
contrapponeva alla “verita probabile” delle concezioni proceduralistiche. La verita materiale,
sosteneva Stragovic, “e nel processo penale sovietico una verita nel senso proprio di questa
parola…” . Si assiste qui alla messa in scena della transustanziazione del presidente Riches in
versione staliniana.
Emerge allora la contrapposizione tra due modelli alternativi del diritto. La verita cui aspira il
modello sostanzialistico, e totalitario, ha scritto Luigi Ferrajoli, “e la cosiddetta verita sostanziale
o materiale, cioe una verita assoluta … Viceversa, la verita perseguita dal modello formalistico
quale fondamento di una condanna e a sua volta una verita formale o processuale … Questa
verita non pretende di essere la verita, non e conseguibile mediante indagini inquisitorie
estranee all’oggetto processuale , e di per se condizionata al rispetto delle procedure e delle
garanzie di difesa”.
Si tratta dunque di una verita che puo essere considerata opinabile, e che porta con se i rischi,
ma anche la forza emancipatrice, di quel pensiero critico e antidogmatico che l’illuminismo di
Sciascia ha sempre incarnato.
Individualismo e democrazia in Whitman ed Emerson
Nella cultura americana è sempre stata viva l’esigenza di coniugare la difesa delle libertà individuali con l’uguaglianza, come dimostrano i versi di Walt Whitman, che rappresentano la più alta espressione poetica dell’ethos democratico. Tutto è per gli individui, scriveva in Presso la riva dell’Ontario azzurro, “tutto è per te, / nessuna condizione è interdetta, né solo di Dio o di altri”. Nella democrazia Whitman riconosce “In fondo a tutto, individui”. Il patto americano, scrive, “è in senso assoluto con gli individui, / il solo governo è quello che prende nota degli individui” e l’intera concezione dell’universo converge su “di un singolo individuo – precisamente su Te “. L’identificazione whitmaniana dell’America con lo spirito democratico, condivisa da John Dewey, è stata messa in luce anche da Richard Rorty, secondo cui la democrazia era, per Whitman, una parola la cui storia “rimane ancora da scrivere, perché quella storia dev’essere ancora messa in scena”. In questa direzione Whitman incontra la filosofia hegeliana della storia, che diviene “la temporalizzazione di ciò che Platone, e ancora Kant, cercavano di eternizzare”. Come ha evidenziato ancora Rorty, Whitman sosteneva che le opere di Hegel, intese come un “un preludio alla saga americana”, avrebbero meritato di essere “raccolte e rilegate sotto il titolo, in bella evidenza, Indicazioni per l’uso del Nord America e della democrazia in essa”. L’interesse per Hegel non poteva condurre Whitman verso lo Stato etico, incompatibile con l’individualismo liberaldemocratico, ma saranno state alcune pagine delle Lezioni sulla filosofia della storia ad attirare la sua attenzione. Qui Hegel, delineando i progressi della libertà, indica, infatti, l’America come il luogo del futuro, “il paese dell’avvenire”, verso cui “si rivolgerà l’interesse della storia universale”. Quel che conta, per Whitman, al di sopra dei diversi sistemi filosofici, è, secondo Martha Nussbaum, “l’amore umano e la nostra capacità di esprimerlo”. Ripercorrendo un cammino che da Platone lo ha condotto a Hegel, Whitman riconosce infatti che il rapporto empatico con gli altri deve prevalere sulla riflessione teoretica e anche sulla religione. Oltre Cristo, scrive, “il divino io vedo, il tenero amore dell’uomo per il suo camerata, l’attrazione dell’amico per l’amico, del marito e della moglie bene assortiti, dei figli e dei genitori della città per la città, del paese per il paese”. In questi versi, scrive Nussbaum, si esprime la volontà di Whitman di considerare la sua metafisica dell’amore come “l’autentica base della metafisica religiosa”. Nel solco della tradizione filosofica greca e cristiana, conclude Nussbaum, Whitman cercherebbe così di creare “un cosmo alternativo, democratico, in cui alle gerarchie delle anime si sostituisce il corpo democratico degli Stati Uniti, che egli definisce un immenso poema”. In questo corpo democratico convergono le vite e le passioni dei singoli individui. Withman, come sostiene Nadia Urbinati, “estese la democrazia alla sfera del privato, alla psicologia e alla morale. Nessuno era escluso dai suoi canti, e a tutte le emozioni, i caratteri, gli stati mentali, le passioni egli concedeva un voto. Elencandoli, affastellandoli l’uno accanto all’altro, Withma n di fatto dichiarava che tutti erano degni di uguale rispetto, gli atti eroici e virtuosi quanto quelli banali, comuni, sordidi”.Nella capacità empatica del poeta di vedere dentro, Martha Nussbaum trova la ricchezza che l’immaginazione letteraria può offrire al mondo della politica per affrontare il disagio sociale e le diverse forme di esclusione. In Il canto di me stesso Whitman propone, in versi, il suo “lasciapassare della democrazia” : “ Non accetterò nulla di cui tutti non possano avere il corrispettivo alle stesse condizioni”, scrive, proponendosi di dare espressione alle “molte voci a lungo silenti, voci dell’interminabile generazione di prigionieri e di schiavi voci degli ammalati, dei disperati, dei ladri, […] voci proibite, voci di sessi e lussurie”. Ecco perché può dire di sé “Io son quegli che attesta la simpatia”, e può svelare la sofferenza che il silenzio spesso nasconde. In questi versi, commenta Martha Nussbaum, Whitman identifica la sua missione di poeta con la democrazia: “E’ una missione -scrive- che comporta immaginazione, immedesimazione, simpatia, voce. Il poeta è lo strumento per mezzo del quale le molte voci a lungo silenti degli esclusi rimuovono il velo e vengono alla luce”. Solo l’immaginazione poetica può offrire allora una visione corretta della realtà delle loro vite, divenendo “un tramite decisivo per l’uguaglianza democratica”.La filosofa americana ritiene che l’immaginazione poetica di Whitman sia essenziale per la formazione di una razionalità pubblica, tanto sul piano etico-politico quanto sul piano giuridico, dal momento che “la simpatia dello spettatore imparziale, da sola, non detta alcun esito specifico in alcuna particolare causa legale”. La nozione whitmaniana di giustizia poetica potrebbe allora venire incontro, secondo Nussbaum, ai limiti di una concezione esclusivamente formale del diritto. Un giudice che si aprisse a questo approccio potrebbe allora, come Whitman, vedere “nei fili d’erba la pari dignità di tutti i cittadini”. Se fantasia ed empatia non avranno diritto di cittadinanza nelle aule di tribunale, prosegue Nussbaum, “le voci a lungo silenti che cercano di farsi sentire per mezzo della loro giustizia rimarranno silenti, e l’alba del giudizio democratico rimarrà velata. Se manca questa capacità, l’interminabile generazione di prigionieri e di schiavi continuerà a soffrire intorno a noi e avrà minori speranze di libertà”. Queste considerazioni rinviano a un passo di Aristotele, che, nella Retorica, utilizza il concetto di equità per indicare una forma di giustizia “che va oltre alla legge scritta”. Essere equi, scrive il filosofo greco, “significa essere indulgenti verso i casi umani, cioè badare “non alla lettera della legge, ma allo spirito del legislatore; e non all’azione ma al proponimento, e non alla parte ma al tutto, e non a come è ora l’imputato, ma come è stato sempre e per lo più”. Solo la capacità intuitiva ed empatica del giudice può cogliere, come ha rilevato Nussbaum, la complessità del mondo interiore del cittadino. L’individualismo di Whitman non si pone dunque a fondamento di un culto aristocratico, ma si apre alla dimensione sociale, senza cedere ai richiami del comunitarismo, in cui il singolo rischia di annullarsi. È facile vivere nel mondo accettando l’opinione della moltitudine, scrive Ralph Waldo Emerson, o vivere in solitudine rimanendo coerenti con le proprie convinzioni, “ma l’uomo grande è quello che nel bel mezzo della mischia mantiene con perfetta serenità l’indipendenza della solitudine”. Se, per Emerson, dobbiamo renderci autonomi da ogni forma di soggezione nei confronti dell’autorità o della tradizione, dobbiamo anche essere capaci di rimettere in discussione noi stessi. Quando le nostre decisioni saranno libere, “saranno armoniche, per quanto dissimili esse possano sembrare” e, viste a distanza, mostreranno “una sola tendenza che le unisce tutte. […] La rotta della nave migliore è una linea a zig zag di centinaia di piccole deviazioni. Guardate la sua linea da una distanza sufficiente, ed essa si raddrizzerà nella tendenza media”. Un’azione genuina si spiegherà se stessa, sostiene Emerson, mentre il conformismo “non spiegherà niente”. Insisti su te stesso, ammoniva, “non imitare mai”. Questa scelta di radicale autonomia richiede personalità forti, ma non Super-uomini. Nell’immagine della nave che segue una rotta a zig zag, si riconosce lo spirito critico del pensiero di Emerson, e la sua fiducia nell’individuo, che può essere libero solo in quanto il suo agire non è eterodiretto. L’antidoto all’uniformità non può allora essere costituito per Emerson, come per Whitman, dal rifugio in una dimensione comunitaria pre-moderna. L’unione è perfetta, scriveva Emerson, “soltanto quando tutti gli aderenti sono isolati. È l’unione degli amici che vivono in quartieri o città diverse. Chi tenta di unirsi ad altri, scopre di essere diminuito nelle sue proporzioni; e più stretta è l’unione più egli è piccolo e pietoso”. Non ci sono fatti sacri né profani per Emerson, che dichiara di scegliere “una ricerca senza fine, senza un passato alle spalle”. Ogni atto finale è, per lui, “solo il primo di una nuova serie, ogni legge generale soltanto un fatto particolare di qualche legge più generale che sta per dischiudersi. Perché non abbiamo esterno, non abbiamo mura che ci racchiudono, non abbiamo circonferenza”. Queste tesi di Emerson sono dunque in netto contrasto con chi, come Alasdair MacIntyre, colloca in primo piano l’appartenenza “a questo clan, a quella tribù, a questa nazione”, contrapponendosi all’individualismo che, a suo avviso, vorrebbe liberarsi dal retaggio della tradizione. Tradizione che potrebbe sopravvivere, secondo MacIntyre, solo in piccoli gruppi, simili alle comunità monastiche medioevali. Emerson vide nelle espressioni dell’associazionismo forme di self-government, piuttosto che segni di appartenenza o nostalgici ritorni al Medioevo. L’individualismo rappresentò per lui, come per Withman, una difesa dell’autodeterminazione dei singoli, con finalità non utilitaristiche o solipsistiche, ma inclusive. Nelle democrazie, ha scritto Nadia Urbinati, “fazioni, sette, mode, conformità ci attirano a sé e ci chiedono il nostro consenso, la nostra arrendevole identificazione. La fiducia in se stessi presuppone una condizione di adesione e di disimpegno a un tempo, di ricettività ma anche di distacco e distanza”. Ripensare oggi la Fiducia in sé stessi di Emerson può consentirci di difenderci dalle nuove forme di omologazione, nella consapevolezza che solo cittadini che possiedano la capacità di autodeterminarsi sono in grado di dar vita a quel Corpo democratico che animava la poesia civile di Walt Whitman.
Testi citati
Whitman, Foglie d’erba, trad. it., Einaudi, Torino, 1965.
Rorty, Una sinistra per il prossimo secolo. L’eredità dei movimenti progressisti americani nel Novecento, trad. it., Garzanti, Milano, 1999.
W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia,4 voll. trad. it. La Nuova Italia, Firenze, 1975, vol. I.
Nussbaum, Il giudizio del poeta. Immaginazione letteraria e vita civile, trad. it., Feltrinelli, Milano, 1995.
Id., L’intelligenza delle emozioni, trad. it., Il Mulino, Bologna, 2011.
Aristotele, Retorica, trad. it. in Opere, 4 voll., vol. IV, Laterza, Roma-Bari, 1973.
Urbinati, L’individualismo democratico. Emerson, Dewey e la cultura politica americana, Donzelli, Roma, 2009.
W. Emerson, Saggi, Boringhieri, Torino, 1962.
Id., Il trascendentalista e altri saggi scelti, Mondadori, Milano, 1989.
MacIntyre, Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, trad. it., Armando, Roma, 2007.
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