CROCE E LA FILOSOFIA POLITICA

di Liliana Sammarco

Nel 1908 Bentley pubblica " The process of Government: a Study of Social Pressures" tentando di "sganciare" lo studio del fenomeno politico dalla concentrazione esclusiva sul problema dello Stato.

Attraverso il radicalismo empirico, e richiamandosi alla grande tradizione "antieticistica" italiana identificabile in Machiavelli, Bentley indica il rapporto politico non come una attività che viene posta in essere con riferimento ai codici , alle Costituzioni ovvero ai caratteri d'un Popolo, ma che sorge, viceversa, intorno agli interessi che determinano l'agire degli uomini collegandoli in molteplici rapporti e gruppi di pressione.

Benedetto Croce interviene subito al dibattito che si apre sul punto, offrendo un contributo sistematico alla questione con l'affermare: " .... che cosa è poi effettivamente lo Stato? Nient'altro che un processo d'azioni utilitarie di un gruppo d'individui o tra i componenti di esso gruppo, e per questo rispetto non c'è da distinguerlo da nessun altro processo di azioni di nessun altro gruppo; ed anzi di nessun individuo, il quale isolato non è mai e sempre vive in qualche forma di relazione sociale. Nè si guadagna cosa alcuna nel definire lo Stato come complesso di Istituzioni o di leggi, perchè non c'è gruppo sociale nè individuo che non possegga istituzioni ed abiti di vita e non sia sottomesso a norme e leggi. A rigore, ogni forma di vita è, in questo senso, vita statale."

Alessandro Passerin d'Entreves, appassionatosi alla questione, nel 1962 ricorda la riconoscenza manifestata a Croce, nel 1922, da Roscoè Pound, il più autorevole rappresentante della anti formalistica Scuola Sociologica del Diritto negli Stati Uniti d'America, il quale rileva pubblicamente l'utilità delle tesi crociane e l'importanza, per la di lui formazione, dei colloqui fra i due intercorsi.

"L'identificazione di filosofia e storia operata da Croce", afferma Pound, " è una ripulsa della filosofia della storia del secolo XIX e costituisce una filosofia della vita in tutta la sua varietà di azioni, mutamenti, compromessi ed adattamenti...".

Questo "atteggiamento funzionale" che accomuna le tesi di Croce, Bentley e Pound, secondo Passerin d'Entreves, confina la "nozione di Stato" a quella di " uno fra i maggiori passatempi intellettuali del passato".

Studiando Croce, Pound trae ancora conferme in ordine all'erroneità dell'idea della "continuità del contenuto" generata dalla concezione hegeliana del diritto e scopre, da una parte, il persistere della concezione hegeliana del diritto nonostante la liberazione, da parte della storiografia, dal concetto della "filosofia della storia", dall'altra, il sorprendente distacco da parte dello storicismo italiano, al pari della nuova cultura nord-americana, dal formalismo, e cioè dall'eccessiva attenzione alle norme ed alle variabili formali.

Ed in vero, nel 1923 Croce già recensisce positivamente il libro dell'anti-formalista Gaetano Mosca sulla classe politica, ricordandone pure le peculiarità nel 1928, nella "Storia d'Italia" poichè - scrive Croce - " .....il solo forse che concepì un'idea feconda, riportando, per virtù di meditazione storica, l'attenzione dalle forme giuridiche alla realtà politica, dal sistema costituzionale e dal metodo parlamentare, alla classe dirigente o politica".

In realtà Croce si muove lungo il sentiero della liberazione dalla filosofia della storia di Hegel, o dai sistemi chiusi, sin dalla fine dell'ottocento, quando già scrive la prefazione agli studi sul materialismo storico, e ne riscrive, infine, nell'ultima prefazione del 1941, ove ricorda d'avere ristampato "la concezione materialistica della storia" di Antonio Labriola, accompagnandola con un proprio saggio del 1937 su " Come nacque e come morì il marxismo teorico in Italia" a conferma della finale "dissoluzione" dello Stato nella Società civile.

Ad ulteriore conferma della lettura anti hgegeliana e storicistica legata al pensiero di Croce, interviene, nel 1925, anche un saggio di Piero Gobetti su " Croce oppositore" in cui viene rimarcata la differenza fra il dogmatico, autoritario, dittatore di provinciale infallibilità Gentile, e l'antitetico Benedetto Croce, politico capace di riflessione, di dubbio, antitetico al culto totalitario della religione di Stato.

Gobetti cita pure il celebre brano del Croce sullo Stato come " ...forma elementare ed angusta della vita pratica, dalla quale la vita morale esce fuori da ogni banda e trabocca, spargendosi in rivoli copiosi e fecondi da disfare e rifare in perpetuo la vita politica stessa e gli Stati, ossia costringerli a rinnovarsi conforme alle esigenze che essa pone".

Aldo Garosci, afferma che l'anno in cui Croce ravvisa l'urgenza di distinguere morale e politica è il 1924, anno in cui viene pubblicato " Etica e politica" a conclusione di riflessioni dettate dalla lunga e permanente polemica con Gentile iniziata nel 1913, ma, avverte anche, che completano il pensiero successivi studi sulla " Controriforma", su "Amore ed avversione allo Stato", sul ruolo della " Filosofia inferiore" che si pone " tra le pieghe del mondo, dei simboli e dei miti.......più vicini all'animo popolare e al mondo della vitalità".

Questi studi successivi, chiariscono che l'etica, traboccando da ogni banda, si riconosce, per un verso, nella fede creativa ( la religione della libertà) e, per l'altro, nelle forme trainanti e preparanti le nuove primavere storiche.

Gioele Solari coglie il dinamismo antistoricistico ed anti hegeliano di Croce rilevandone l'avvertimento a non " elevare lo Stato a significato ed entità etica."e rimarcando pure il valore del dialogo apertosi fra Croce e Labriola sin dalla fine dell'ottocento, quando già il Labriola, alla concezione dello stato etico, opponeva la concezione dello Stato che trae origine da un sistema di forze e di interessi ponendo così lo Stato nella categoria dell'utile all'interno della tradizione del liberalismo anglosassone.

L'influenza crociana a Torino appare grande e duratura, e proprio da Torino giunge la lettera di solidarietà da Umberto Cosmo a Croce, indicato da Mussolini come " imboscato della storia".

Le riflessioni sulle intuizioni di Croce in ambito di filosofia politica, passano, per scritti più recenti.

Sartori ( introduzione all'Antologia di Scienza politica del 1970), presentando in Italia metodi e risultati della scienza politica nord-americana, torna al tema classico della teoria dello Stato precisando che Hegel e Marx trasfiguravano lo stato esistente mentre la scienza politica s'interessava già non dell'essenza ma del modo d'operare dello Stato.

La nuova scienza politica italiana, pone oggi decisamente l'accento su due distinte tradizioni analitiche; da una parte la tradizione anglosassone che conferisce grande attenzione ai processi sociali più che alle configurazioni statuali, dall'altra una tradizione continentale di analisi delle strutture statuali vere e proprie, di studi istituzionali.

Sotto questo aspetto, gli studi di Croce sulla "filosofia interiore" e sull'individuo come "gruppo di abiti" che si pone in relazione con la società e con il variegato sistema di interessi e di pressioni, lo pongono decisamente dalla parte della tradizione anglosassone.

L'etica non è più prigioniera, così, dello Stato, e sono l'infermità e la lentezza delle forze morali, o la loro capacità di operare con slancio, a segnare i tempi della ripresa che, nella sua fase iniziale, trova i suoi riferimenti nella scienza, nell'arte, negli oppositori.

" La cultura dei periodi di reazione" afferma Croce," si cerca e si ritrova soltanto negli oppositori delle reazioni: come in Italia, nell'età della controriforma, in Bruno e Campanella e Galileo".

ECONOMIA ED ESTETICA NELLA PALERMO LIBERTY

 

Alla fine dell'Ottocento e nei primi decenni del Novecento la città di Palermo esce dalle perimetrazioni delle sue vecchie mura e si apre al nuovo soffio della cultura europea. Il ruolo di Palermo, grande capitale del Risorgimento italiano, si esalta nel contatto con i grandi filoni architettonici dell’Art Nouveau che in altre capitali europee, specialmente a Bruxelles, si erano affermati. Sotto questo aspetto, Palermo mostra di non volere perdere quello che era stato uno dei maggiori connotati della cultura risorgimentale, e cioè la vivacità e l'elevatezza del circuito di vita intellettuale e morale che aveva congiunto il patriottismo liberale italiano con la cultura europea.

Basti pensare - ma dico cose note - all'impegno della prima generazione risorgimentale, e cioè a Cavour, alla formazione illuministica e mazziniana di Crispi, allo sforzo, anche ideologico, di Bertrando Spaventa di ricongiungere la filosofia italiana alla filosofia europea, e alla passione delle successive generazioni, come Sennino e Franchetti, giunti in Sicilia sulla scia dei grandi modelli culturali attinti dal liberalismo inglese e dal costituzionalismo tedesco.
Palermo, dunque, non aveva voluto rinunciare al grande collegamento con l'Europa, specialmente quando aveva celebrato, attraverso i suoi storici e i suoi politici tra i quali Crispi, il mito del Parlamento normanno: un Parlamento proiettato certamente nel Mediterraneo, ma costruito dai rudi uomini del Nord, giunti in Sicilia vittoriosi, con la forza - avrebbe detto Vico - che caratterizza i fondatori degli Stati.
Così Palermo, uscita dal Risorgimento, con le memorie dell' "antica libertà" dei suoi Parlamenti, strettamente legati, fin dal Medioevo, ai modelli inglesi, non volle mai perdere il dialogo con le civiltà architettonico-urbanistiche d'Europa.
Non è un caso che il catalogo di una mostra della Galleria d'Arte Moderna tenuta a Palermo nel 1981, contenga due saggi introduttivi: uno su Palermo 1900 e l'altro su Bruxelles, capitale de l'Art Nouveau ou la découverte d'une structure significative.
Pertanto, il personaggio che si innesta in questa nuova stagione palermitana è Michele Utveggio. Imprenditore o, meglio, costruttore, egli proveniva da profonde origini popolari. La sua figura sembra uscita dalle pagine di Michele Lessona, l'autore di Volere è potere.
Utveggio è l'uomo che si fa da sé, è il borghese che "diventa", secondo una nota affermazione di Croce che individuava nella borghesia il ceto mediatore capace di inglobare in sé tutte le altre classi sociali, purché lo spirito vitalistico e creativo degli individui si rivelasse vigoroso nella connessione interattiva tra la sfera categoriale dell'Utile, o mondo degli affari, e i valori della bellezza, propri della forma Estetica, dentro un universo di simboli e di linguaggi che continuano a parlare e che, a modo loro, entrano nel tempo che noi andiamo vivendo.
La scelta orientata su Utveggio spiega l'attenzione rivolta a questa figura perché si mantiene più legata, nella sua drammaticità e creatività, al tessuto di una nuova borghesia palermitana, fortemente minoritaria e poco fortunata, aperta al grande sogno della realizzazione di una città nuova, fatta di piccole e di grandi opere: del Castello sul Monte Pellegrino, e di eleganti e popolari quartieri giardino, destinati a dare il senso a quello che Giovanni Ansaldo - scrittore raffinato e con il "gusto dell'aneddotica", grande giornalista e autore di indimenticabili biografie - come quella su Giolitti - ha definito essere la qualità della "buona vita".
Utveggio e non i Florio, perché questi ultimi, specialmente l'ultima generazione, sono rappresentativi di un universo "non interamente borghese" come quello di Utveggio, ma piuttosto aperto ai compromessi con l'aristocrazia.
La descrizione dettagliata della figura di Utveggio e della Palermo fine Ottocento, che sostanzialmente sopravvive fino agli anni Trenta del Novecento, emerge da un brano suggestivo di Ansaldo, tratto dal Dizionario degli italiani illustri e meschini, dove si legge:
«Da parecchie strade centrali di Palermo, alzando gli occhi, si vede lontano, su un costone di Monte Pellegrino, una costruzione potente e solitaria, che a primo aspetto sembra un castello. E, se si chiedono informazioni, si ha precisamente questa: 'E' il castello dell'Utveggio'. E il nome strano accresce stranezza alla costruzione. In realtà Michele Utveggio fu un tipo [...] stranissimo. Nato a Calafatimi [1866-1933], da povero manovale, si tirò su a piccolo appaltatore; poi trasferitesi a Palermo, vi trovò l'America sua. Cominciò con la demolizione dei bastioni di San Vito [che delimitavano la città] e con la costruzione di alcuni grandi palazzi dietro il Teatro Massimo. Continuò dopo la Esposizione Nazionale del 1892, costruendo case 'fin di secolo' ai due lati di Via della Libertà, aperta nel 1848, ma rimasta per semplici passeggiate. Case decorose e severe, a mezze tinte, con piccoli e austeri giardinetti dinanzi. La Via della Libertà diventò il quartiere dei baroni che disertavano i 'feudi' o dei professionisti di grido» (G. Ansaldo, Dizionario degli italiani illustri e meschini. Milano 1980. p. 236.)
Il ritratto di questo imprenditore e della sua città prosegue con la narrazione delle vicende di Utveggio, delle sue realizzazioni spesso identificate con la crescita urbanistica di Palermo, e del Castello che fu progettato insieme all'architetto Santangelo con riferimento ai modelli figurativi medioevali di tipo neo-romantico. 
Il Castello, secondo l'ordine artistico della spazialità costruita (che rappresenta la trasfigurazione della materia in immagine figurativa-espressiva) e della temporalità (propria delle evoluzioni e variazioni del mutamento del reale), esprime le forme di ciò che nella sua unicità è il linguaggio monumentale, codice di riferimento entro cui si attua la comunicazione simbolica. «Scrive [... ] lo Schleirmacher.II contrasto fra i due ordini d'arte [il simultaneo e il successivo, connessi rispettivamente allo spazio e al tempo ] significa solamente che ogni contemplazione, al pari di ogni produttività, è sempre successiva, ma [...] nel pensare la relazione dei due lati in un'opera d'arte, l'uno e l'altro ci appaiono indispensabili: il coesistere (das Zugleichsein\ e l'essere successivamente (das Successivsein)>
"Spazio e tempo - secondo la critica di Carlo Ludovico Ragghianti, critico d'arte - è, appunto, non già astrazione [...] ma il concreto linguaggio espressivo dell'opera d'arte [...]. [Infatti], noi nell'interpretazione non facciamo altro che riflettere in termini spazio-temporali un'attività - anzi, un'espressione - della quale è intrinseco ed originario, costitutivo, l'ordinamento spazio-temporale" (A. Pagliaro, La parola e l'immagine. Napoli 1957, p. 103.)
"II tempo, di cui si parla, precisa Antonino Pagliaro studioso del linguaggio, è il tempo vissuto, cioè la partecipazione alla continuità dell'essere come durata, non il tempo strutturato, che è una forma della mente: e, [...] l'opera d'arte, [...] non è altro se non obiettivazione del vissuto, colto in un momento intenso del suo ritmo, il quale costituisce la forma interna dell'opera stessa e le consente di essere un'entità vivente perennemente attuale" (M. Coltura, // castello Utveggio, Palermo 1991, p. 32.)
II Castello Utveggio, secondo il suo percorso storico, fu costruito dal 1928 al 1932, da un'altezza di 346 m. sul livello del mare, per offrire ai visitatori un panorama di eccezionale risonanza turistica, esaltante l'intera «Città e Conca d'oro [...] a volo d'uccello con tutti i monti che la circondano, ... dal Monte Gallo al Monte Aspra, oltre uno sfondo infinito di alti monti tra i quali [...] quelli delle Madonie».
«I materiali costruttivi, strutture continue e cemento armato ( di cui l'Utveggio fu un antesignano tra i costruttori di Palermo), l'intonaco in 'rosa Zona' [dal nome di un ingegnere che aveva dato quella tinta ad una casetta di sua proprietà, e l'arredamento della famosa ditta Ducrot], definirono un organismo architettonico particolare», inscindibilmente interagente con l'habitat naturale del monte, della sky-line della città di Palermo.
Tutto ciò esprime l'autenticità di un uomo, dotato di un forte spirito calvinista e di una fervida immaginazione capace di vedere nel suo mentale una forte proiezione verso il futuro. Ma il futuro si conquista - secondo Croce - con il "trionfo di capacita che è soprattutto "una conquista non materiale ma spirituale e duratura", '"un trionfo di antiveggenza", frutto del connubio tra la struttura materiale — che rappresenta il contenuto — ed il gusto ideale per l'arte architettonica — che rappresenta Sforma entro cui quel contenuto è plasmato — valore che l'Utveggio assunse nella forma d'indomabile passione.
«Nel primo dopoguerra — come precisa Ansaldo — [...] venne in mente [a Utveggio] di edificare un albergo sul Monte Pellegrino. Sul Monte non c'era [...] acqua. L'Utveggio stabilì un servizio di pompe tra il costone prescelto e le falde del monte, e assicurò l'approvvigionamento idrico. Purtroppo andò incontro, per questo e per le innumerevoli altre difficoltà incontrate, a spese enormi. Ma l'Utveggio era di una testardaggine eroica; e, pure rovinandocisi, e pure dovendo vendere, per questo, proprio il palazzo di piazza Verdi [con l'attico e il cinema-teatro], portò a compimento l'impresa. E l'albergo, maestoso come un castello, fu aperto; restando senza clienti. Donde la battuta di Mormino, direttore generale del Banco di Sicilia: 'L'Utveggio ha costruito un monumento ai propri danari". Ma — conclude Ansaldo — il «punto più notabile di questa avventura umana è che l'Utveggio era pressoché analfabeta».
E' necessario aggiungere — per comprendere la tenacia dello spirito innovativo di questo grande imprenditore — che Utveggio progettò per i visitatori — purtroppo senza successo — la costruzione di una funivia aerea, nuova attrattiva palermitana che, — oltre la fruizione di un servizio pubblico di autobus, — avrebbe collegato, in soli dieci minuti, il centro di Palermo da Piazza Leoni alla grotta di S. Rosalia, con una fermata intermedia al Castello Utveggio. Inoltre «le vetture dovevano essere dotate di collegamento telefonico con la stazione di manovra. Intutte e tre le stazioni erano previsti un locale per il pubblico con bar e servizi".
La città di cui parla Ansaldo è quindi la Palermo che in questo slancio si ricongiunge ai modelli architettonici e culturali di atmosfera anglosassone e mitteleuropea, rilevando un clima di eleganza che non aveva nulla da invidiare alle altre città d'Europa.
Ma in questa città c'è anche un'altra figura di carattere mitteleuropeo che qui è bene descrivere, simbolo dell'atmosfera di quei tempi: è Guido Jung, proprietario di un'azienda che produceva mandorle e frutta secca, tale da «egemonizza[re] il commercio mondiale del prodotto».9 Personalità plurivalente, Jung fu Ministro delle Finanze, Presidente dell ' ICE, Presidente della Sofindit, la società finanziaria industriale italiana che preparò l'IRI, l'Istituto di Ricostruzione Industriale. 
Attraverso di lui, il giovane figlioccio Enrico Cuccia (nato nel 1907), suo pupillo, sarà in grado di iniziare, con spirito innovativo, una splendida carriera diplomatica che lo vedrà fondatore dell'unica vera banca d'affari in Italia, Mediobanca, in grado di condizionare le vicende dell'economia e della finanza italiana, con la capacità di garantire la stabilità del sistema. «E' proprio Guido Jung a suggerire a papà Beniamino Cuccia e alla consorte Aurea Ragusa, [famiglia di radici greco-albanesi, perfettamente integrata nella buona borghesia palermitana], di trasferirsi in Roma-Capitale, agevolandolo nell'assunzione al Ministero delle finanze. Per questa coincidenza che si rivelerà propizia, Enrico viene alla luce a Roma anziché a Palermo. Con un padrino illustre come Jung». Fu infatti la diplomazia internazionale di Jung a favorire a Cuccia la possibilità di introdursi, anzitempo, ai vertici della borghesia di Stato romana, e procedere nell'iter trionfante della sua carriera
Giovanni Malagodi - il grande leader del liberalismo italiano - ha tracciato di Jung un ritratto singolare e chiaro. Jung, ha scritto Malagodi, «risiedeva, scapolo già avanti negli anni, a Palermo con la vecchissima e arzilla madre. Presiedeva a Roma quell'Istituto per il Commercio Estero, dove era stato messo temporaneamente al sicuro Ugo La Malfa, finché l'aria di Roma non diventò comunque troppo malsana, e di lì venne all'Ufficio Studi della Comit. [...]. 
Jung, [a livello descrittivo], era roseo, coi capelli bianchi e gli occhi blu porcellana. Vestiva di solito calzoni scuri a righe, giacca nera, gilet nero orlato di piche bianco (deve essere stato l'ultimo europeo a portarlo così). Di origine ebreo-tedesca, era un appassionato patriota, anzi nazionalista italiano. Si era guadagnato una medaglia d'argento negli anni '15 - '18. Un'altra se ne doveva guadagnare in Etiopia dove andò volontario e non giovane, dopo avere preso il brevetto di aviatore e dopo che Mussolini l'ebbe tolto dalle Finanze [...] per rendere più agevole quella gestione meno ortodossa che la guerra richiedeva. Le sue amicizie erano soprattutto nell'ambiente economico triestino e confortavano la sua sincera e magari un po' ingenua fede nella logica dell'economia di mercato».
Palermo e Trieste, idealmente, si unificavano, non a caso, nella personalità di Jung, quasi a significare un accordo tra la Palermo mediterranea, protesa verso il Nord Europa, e la Trieste mitteleuropea del Mediterraneo, sorella quest'ultima delle altre città minori, come Spalato e Ragusa in Dalmazia.
Enzo Bettiza, il grande scrittore e giornalista di origine dalmata, si ritiene un «erede disperso di quella singolare Mitteleuropa mediterranea ch'era la Dalmazia», con una attenzione particolare a Ragusa, città che egli descrive «nella sua bellezza architettonica, nella sua unicità rinascimentale e mediterranea [...]: cosmopolita, marinara, lontana dalle cupole ortodosse, dalle icone bizantine e dai testi sacri in cirillico [...] con le memorie d'arte e d'architettura dell'Atene degli slavi del Sud' ». Bettiza si sofferma a ricordare la figura di suo padre che era, «per gli studi universitari, per l'eleganza molto viennese dei modi e degli abiti, un'incarnazione a suo modo esemplare di quella rara creatura cosmopolita, ormai estinta, che si chiamava una volta 'homo austriacus'[...J che non implicava però il connotato della nazionalità [...]. Il suo tollerante stile di vita era austriaco, mentre i suoi misurati ma persistenti sentimenti nazionali erano italiani».
Il problema si pone quindi nel rapporto tra l'ideal-tipo del "borghese", prima delineato, e la realtà sociale palermitana. Utveggio e Jung rappresentano certamente significative incarnazioni di questo modello. Ma esse appaiono isolate in un contesto difficile.
Chi volesse ricostruire questo contesto dovrebbe, quindi, rifarsi al dialogo della Sicilia con l'Europa che ha, come è noto, una sua propaggine proiettata attivamente verso il mondo inglese. Il circuito più vitale si coglie — fin dalla prima metà dell'Ottocento — attraverso l'azione imprenditoriale prestigiosa di «Vincenzo Florio, legato dal 1840 all'industria enologica fondata dagli inglesi (Wood-house, Ingham) a Marsala, ... [e che] 'nello stesso periodo divenne secondo azionista di una società di navigazione inglese ed incentivò una serie di migliorie portuali'».
Pertanto, questo dialogo palermitano, di carattere mitteleuropeo, si nutre di valide consistenze operative, al punto tale che, nel settore della costruzione delle strade, la diffusione delle nuove tecniche studiate da John McAdam, vengono utilizzate con interesse da alcuni imprenditori privati, e gli scambi commerciali, tra la Sicilia e l'Inghilterra, diventeranno dieci volte di intensità superiore rispetto agli altri stati dell'Italia centrale e settentrionale.
Queste iniziative di tipo industriale — che rappresentano un tentativo coraggioso di promuovere un progresso tecnologico, in un panorama di carenze di sviluppo nel settore della produzione industriale palermitana, — conducono alla creazione del «Giardino Inglese» lungo la via Libertà, nel 1851, e alla «Villa Garibaldi» in Piazza Marina, tra il 1861 e il 1864, opere queste di G.B.Filippo Basile, padre di Emesto Basile.
Tale apertura ebbe la sua commistione, alla fine dell'Ottocento, con una breve ripresa di motivi settecenteschi e neo-classici, finché la città si proiettò, con decisione ed energia, verso una nuova stagione, più legata a motivi internazionali; e Palermo divenne, per un breve e intenso periodo, la «piccola capitale del liberty o dell'art nouveau, che si richiamava a flessuosi motivi vegetali e animali, per avvicinarsi alle più segrete forze della natura contro il rigido verticalismo.
Luigi Capuana scrisse nel 1885 che «un palermitano dell'alta classe e della borghesia differiva, esteriormente e interiormente, così poco da un parigino delle stesse classi, che il coglierne la vera caratteristica presentava una difficoltà quasi insuperabile, almeno a prima vista».
Questa dimensione internazionale della cultura si riflette nel settore architettonico, e dalla seconda metà dell'Ottocento, precisamente dagli anni Sessanta in poi, la borghesia palermitana, forte dei suoi contatti economici e culturali con l'Europa, sente il bisogno di erigere a Palermo, a ridosso della via Maqueda, il «monumento» per eccellenza, privilegio economico della nuova classe: il «Teatro Massimo Vittorio Emanuele», (1875-1895) che «onora, nella sua prodigiosa bellezza, due grandi Maestri, padre e figlio, G.B.Filippo ed Ernesto Basile».
Quest'opera monumentale rappresenta la "sintesi degli studi, della mente e del cuore e G.B.Filippo Basile ed onora tutta la vita di un'Artista e di un'epoca. Il Teatro di Palermo si colloca degnamente accanto ai due più grandi Teatri europei costruiti nella epoca moderna, quello di Vienna e quello di Parigi ed entrambi li supera per la grandiosità dello stile e per la purezza delle sue linee architettoniche", liberamente ispirate al "corinzio italico", di valore storico ed estetico.
In misura minore, la borghesia palermitana edifica il «Teatro Politeama», in una posizione di cerniera tra l'ultimo pezzo della città e la città moderna: Teatro diurno, di orientamento democratico, aperto alla partecipazione del popolo. Le due costruzioni artistiche e monumentali rappresenteranno le due anime dell'architettonica palermitana del XIX secolo, designando l'inizio della nuova città alla espansione, all'interno di un «controllo e una raffinatezza di gusto [...] insolite nel deprimente panorama italiano contemporaneo». In quel situazione, anche se isolato da alcuni gravi problemi della città, sorgeranno «alcuni degli episodi più eleganti di tutto il Liberty italiano», in un clima di "giovinezza e di modernità addirittura avveniristica [dove] tutti possano tornare a fruire della categoria della bellezza. In realtà, realizzazioni liberty, sia perché nuove e sperimentali, sia anche perché intrinsecamente portate alla complessità e all'impiego di numerosi materiali, riuscirono fruibili soltanto a un pubblico molto ristretto, di estrazione alto-borghese [...] nonostante si [proponessero] di garantire un'eleganza e una bellezza moderna a un pubblico che fosse il più esteso e democratico possibile".
Questo grande respiro vitalistico e stilistico-ornamentale rappresentato da fluide ondulazioni lineari , avrà il suo riferimento specifico nelle figure di Ernesto Basile e di Michele Utveggio. Entrambi i personaggi saranno espressione di una borghesia lontana dall'affarismo sfrenato del Nord del Paese o dal burocratismo di quella romana; ma vicina, piuttosto, ad un modello culturale in cui la Bellezza e l’Utile - le due «scienze mondane» esaltate da Croce come le due forze motrici della società moderna— riusciranno a convivere armoniosamente.
Infatti, si chiede Croce: "che cosa, in ultima analisi, fanno queste due scienze? [...] Esse intendono [...] definire e sistemare [...] quel che si chiama il "senso" [...] e [perché] il senso [ha] due congiunti ma distinti significati, e designa, da una parte, quel che nel conoscere non è logico ma sensibile e intuitivo, e, dall'altra, quel che nella pratica non è per sé morale e dettato dal dovere ma semplicemente voluto perché ornato, desiderato, utile e piacevole [...]. [Ciò] mette capo, da una parte, alla logica dei sensi o logica poetica, scienza del puro conoscere intuitivo o Estetica, e, l'altra all'edonistica, alla logica dell'utile, all'Economica"
Riguardo i due personaggi palermitani, Basile ed Utveggio, si delineano però notevoli differenze.
Basile proveniva dalla borghesia delle professioni e della cultura. Utveggio invece da profonde origini popolari, ma con la determinazione della «volontà occhiuta»: volontà che, con l'occhio sottile del «genio pratico» vedeva «l'inesistente esistere nella volontà; e questa esistenza nella volontà costituiva] [...] la realtà estetica» Utveggio non era borghese, ma con accelerazione lo «divenne», fino ad entrare nella frequentazione consuetudinaria delle classi alte, — tra cui re e regine — per realizzare «interessi profondi e duraturi», relativamente permanenti.
Alla luce dell'obiettivo da raggiungere, cioè la costruzione del Castello, Utveggio seppe quindi formarsi, lottare, aspettare e sacrificare la sua vita per modellare se stesso secondo l'«etica del lavoro», connaturata a questo tipo di borghesia, «classe non classe», che Croce identificava nel «ceto medio»: «che non è un ceto economico, [...] laddove esso è da intendere più largamente e nella sua purezza, come il complesso di tutti coloro che hanno vivo il sentimento del bene pubblico, ne soffrono la passione, affinano e determinano i loro concetti a quest'uopo, e operano in modo conforme». Questa borghesia, infatti, identificava un pubblico che fosse il più esteso e democratico possibile". 
E Come intendeva il Goethe [...] ogni sistema mentale, [...] ogni concezione della realtà [...] tramutata in fede, [diviene] fondamento di azione e insieme lume di vita morale». Sbagliava Mormino, direttore del Banco di Sicilia, quando attribuiva ad Utveggio una volontà semplicemente dominata dal denaro. Al contrario, Utveggio trasformava il denaro in veicolo strumentale per l'affermazione della Bellezza nell'ambito dell'edilizia imprenditoriale e dello sviluppo sociale.
Così si può comprendere il giudizio di Croce sulla borghesia come «classe non classe», e il genio di colui che sa di agire o «genio dell'agente», ciò di cui era permeato l'Utveggio.
Ma, per comprendere bene questa vicenda, è necessario allora ricorrere a modelli culturali diversi: / tìuddenhrook di Mann o L'uomo senza qualità di Musil, dove la storia della borghesia e la storia dello «sborghesizzamento» si intrecciano.
A questo proposito, C. Magris scrive: «Mann sentiva vibrare la Biirgerlichkeit, una patria borghese del sentimento che non si identificava con alcuna Bougeoisie, con alcun ordine sociale determinato, ma sentiva pure echeggiare l'indicibile struggimento di una forma che rinvia oltre i propri limiti, di una felicità che naufraga nell'illimitato, di un oblioso abbandono il cui segreto si sottrae a quel calcolo e a quella fatica senza i quali non sarebbe nata quella melodia che lo dice». «Il decoro borghese, basato sulla dedizione al lavoro, sulla rettitudine e sul prestigio sociale era una rappresentazione cui si credeva con passione. Nei Buddenhrook, il capolavoro manniano del 1901, [...] Thomas Buddenbrook pensa che lo zio ribelle [che si era sposato per amore contro le ragioni di interesse richieste dalla tradizione] non aveva avuto sufficiente poesia e fantasia per capire quale profondo significato simbolico potesse essere celato nella fedele obbedienza all'onorata insegna di una ditta familiare alle sue proprietà. E' da questo ethos che Mann riceve il senso inflessibile e struggente della forma, la disciplina del lavoro, trasferita nel disciplinatissimo e assiduo lavoro artistico, l'appassionato rispetto del limite che è amore per la vita, minacciata dall'informe».
Musil, nell' Uomo senza qualità, traccia il profilo di Arnheim, uomo di finanza e di impresa, aperto alla bellezza e al "grande poema della vita"; [egli afferma che gli individui] facendo poesia della vita possono considerarsi veramente nati per il loro mestiere, e [pronti] a permeare di responsabilità morale la loro attività quotidiana, si sentono obbligati a mille piccole decisioni affinché essa diventi bella e morale [e] [...] sul pensiero che Goethe è vissuto così [ si può affermare ] che senza musica, senza natura, senza lo spettacolo dei giochi innocenti dei bambini e degli animali e senza un buon libro la vita non darebbe loro alcuna gioia".
Come è noto, Arnheim rappresenta Walter Rathenau, grande rappresentante della finanza e dell'economia tedesca e interprete dello spirito della Repubblica di Weimar, inteso come equilibrio tra il mondo della cultura ed il mondo dell'economia. Benedetto Croce ebbe grande ammirazione verso Rathenau, e ne recensì il saggio L'econo mia nuova, pubblicato in Italia nel 1919. Croce apprezzò in Rathenau la capacità di considerare l'economia non disgiunta da tutte le altre attività umane. L'utopia del "socialismo del capitale", cara a Rathenau, nascondeva, infatti, come Amheim, un grande progetto di rigenerazione individuale e sociale.
Ma queste sono le grandi figure "ideal-tipiche". Nella realtà Palermo, sotto il profilo crociano della borghesia, identificata come «classe non classe», non è riuscita a permanere stabilmente "città mitteleuropea", come alcuni dei quartieri di Bruxelles, di Vienna o di Budapest.
Ci siamo interrogati sulle ragioni della difficoltà di questa città a mantenere in vita, nel tempo e lungamente, un tessuto edilizio e civile. La risposta si può trovare in un saggio di Croce, scritto nel 1928, Contrasti di ideali politici dopo il 1870, in Etica e politica, in cui si osserva con inquietudine l'affermarsi di forze economiche prive di respiro etico.
Il Castello ubicato sul monte, rappresenta così il successo della sua durata, una magia tutta rivolta al prestigio della pura visibilità e al suo guardare verso l'Europa. Infatti «il principio dell'arte - secondo Ragghianti - non è la bellezza, o il concetto, o il piacere, o il sentimento, o l'imitazione, ma la visibilità intesa come autonoma conoscenza del reale».
Così, da qualsiasi punto della città lo si guardi, il Castello è visibile per la sua prominente collocazione sul Primo Pizzo del Monte Pellegrino, che Goethe definì «il più bei promontorio del mondo», e dove vi «giunsero il re d'Italia, i principi di Piemonte, imprenditori, e molta nobiltà internazionale».35 Inoltre, la posizione strategica del Castello, privilegia la sua durata come struttura relativamente permanente. Infatti, durante la seconda guerra mondiale, si constatò che la sua distruzione era pressoché impossibile a causa dei vuoti d'aria esistenti in quel posto, tali da rendere difficoltosa l'azione degli aerei che avessero voluto colpire l'obiettivo m picchiata o bombardare da alta quota.
Malgrado lo scempio edilizio, dove buona parte delle ville liberty andarono distrutte, possiamo ancora ritrovare le tracce di questo passato in cui Palermo era una città giardino, un modello di città immersa nel verde, ed ancora oggi si può notare il quartiere «Matteotti», sorto sul progetto degli architetti Santangelo ed Epifanie. Questo quartiere, destinato alla classe media della città, rifulge per la sua eleganza sobria, delicata e sfumata, e per l'individualismo delle sue costruzioni, vicine ai celebri riferimenti anglosassoni e alla Secessione viennese.
Analogamente, la propaggine minore e oggi dimenticata di Via Villa Caputo, riflette, per corrispondenza, il medesimo modello, ma in modo aggregativo diverso, più popolare, anche se individualistico esso stesso. Questo quartiere mantiene, però, osservato da vicino, un vigore strutturale e un tessuto evocativo analogo al riferimento del quartiere-giardino Matteotti e ai modelli nazionali e internazionali di grande forza. L'idea animatrice riecheggia, alla lontana, il valore popolare del «socialismo della bellezza», in cui l'arte e il suo dialogo continuano ad operare anche all'interno dell'edilizia più legata alle esigenze popolari
II rapporto tra il quartiere-giardino Matteotti e Via Villa Caputo è quello della parità tra «grande» e «piccolo». Ma, soprattutto, quel rapporto evidenzia una continuità del tessuto urbano palermitano che fa risaltare alcune sue «emergenze», e, nello stesso tempo, agisce nella continuità di un'edilizia residenziale e abitativa più standardizzata, e altrettanto carica di richiami.
Lungo il tracciato di via Libertà si delinea idealmente come un quadrilatero o rombo delle memorie, in cui i motivi della Palermo liberty si intrecciano in maniera sorprendente con i temi del Risorgimento e soprattutto con le figure di Crespi e di Garibaldi. Ai due estremi si trovano la Statua della Libertà, con le memorie della Grande Guerra, e la statua di Crespi a Piazza Croci; ai due lati, invece, si riscontra la statua equestre di Garibaldi e, di fronte, nel Giardino Inglese, la fiaccola simbolicamente accesa dei caduti della Grande Guerra.
A loro volta la «città Liberty» e la «città giardino» sono immerse nella città delle memorie e dei simboli della «religione della Patria», custodita nel Pantheon di Piazza S. Domenico. Allo stesso modo, il quartiere Matteotti ha intitolato le sue vie a molti luoghi delle battaglie della Grande Guerra.
Eppure, quelle memorie e quei simboli, nella loro permanenza, creano forti emozioni e conservano il ricordo delle gesta dei patrioti del Risorgimento e della Grande Guerra, specialmente negli splendidi bassorilievi dove è impresso lo scenario delle azioni che furono significative e rivoluzionarie per la storia. Il porsi di quei simboli assume, però, un tono equilibrato e non aggressivo.
Tant'è vero che, accanto ad essi, in quelle case degne della più grande cultura europea e occidentale, operava un geloso e moderno individualismo, insieme alla cultura pacata della «buona vita».
Anche a Palermo si va affermando — come ha scritto con finezza Elena Croce — il «culto della casa come ideale borghese», carico di individualismo e sempre più adeguato al «moderno concetto di società industriale, con connesse disponibilità e bisogno di 'status' di presentabilità». Ma a Palermo c'è di più. Si mantiene vivo, infatti, il gusto della bellezza e quello della «buona vita», così come Ansaldo ce l'aveva descritta in un capitolo della biografia su Giolitti. Nascono, infatti, e si affermano le prime automobili, i negozi, un'alimentazione e un vestiario più ricchi, il gas e la luce elettrica.
Le case e le ville di Utveggio e di Basile, — come Villa Deliella (1905-1906) che sorgeva a Piazza Croci, il Villino Bonanno, le palazzine di Via Notarbartolo e di Via Libertà — tutte furono distrutte dalla devastazione selvaggia della nuova edilizia di questo secondo dopoguerra, mentre rimane il Grand Hotel Villa Igiea (1899-1904), uno dei capolavori del liberty italiano di Basile e Villino Florio (1899-1903), in Viale Regina Margherita, che, dopo un incendio doloso negli interni ed nel parco, è attualmente in ristrutturazione. Esse riflettevano, appunto, l'ideale della «buona vita» e svolgevano un ruolo fondamentale sui caratteri distintivi della storia della città.
E c'è una casa che rispecchia non solo la «buona vita», ma l'alta cultura innestata in un universo simbolico ancora da svelare e indagare: è la «casetta bianca» o «Villino Ida» del 1904, dimora di Emesto Basile. Questa casa, colta nella sua individualità, assume la connotazione del suo autoritratto, in quanto accoglie all'interno, le predilezioni oggettive dell'artista riferite al design dei mobili ed arredi, in sintonia con i suoi affetti, i suoi desideri e interessi, e le contraddizioni del suo carattere, mentre all'esterno riflette i tratti stilistici e vitalistico-ornamentali dell'arte nuova
Riteniamo di avere compreso le ragioni profonde che abbiano spinto il Basile a eleggere quel luogo come sede della sua abitazione. Non a caso la sua collocazione si pone sul quadrante di Mezzogiorno, nell'angolo situato tra via Villafranca e via Siracusa, luogo di privilegiata residenza borghese. Su questi due fronti stradali, si nota un meccanismo di rotazione che fa capo allo spigolo dell'edificio posto tra le due vie, coronato sul balcone dall'intreccio angolare in ferro battuto, che assume un ruolo fondamentale e si lega a giuochi di simmetria più complessi.
Il riferimento al luogo, ha la sua ragion d'essere nel sottile richiamo alla condizione astronomica reale della rosa dei venti — che presumibilmente il Basile ritenne essere simbolo jainico della fortuna — e l'asse Nord-Sud che funge da autentico spartiacque di luce per il soleggiamento della casa. Il giuoco vibrante della luce in rapporto alla posizione del sole, forte nel dettaglio ma estremamente delicato nell'insieme, rimanda a più antiche e sapienti esperienze (quelle egiziane, cabalistiche, pitagoriche e moderne).
Lo spigolo, l'ingresso e la torretta rappresentano un «biglietto da visita» nel quale, non a caso, nel prospetto di via Siracusa, sul frontale del portone, figurano, con motivi decorativi e grafici, le iniziali del Basile, poste nella funzione di «essere» e «apparire», in corrispondenza al rapporto che si instaura tra l'esterno e l'interno della casa. Lo stucco bianco, materiale impiegato con maestrìa dai fratelli Li Vigni, autori del celebre e insuperato impasto, denota il fascino di adesione del Basile rispetto al Serpotta; nel rapporto tra «ornato» e «struttura» in cui il materiale e la capacità di impiego risultano fusi insieme. Il Serpotta, che è — secondo il Basile —«considerato dai suoi contemporanei non altro che come un valente stuccatore, è non pure il più grande degli scultori siciliani, ma uno dei maggiori che la scuola dell'arte possa vantare».
All'interno della casa, nel suo cuore, singolare è la disposizione simbolica, ruotante verso sinistra, delle mattonelle del pavimento, e delle figure emblematiche poste sul soffitto. In basso, più specificatamente, si coglie in forma di linguaggio, il movimento verso sinistra della rosa dei venti; in alto, insieme ai motivi floreali, si distingue la forma di una lucertola che, nel suo segreto ultimo, simboleggia l'elemento fuoco della natura, così come il focolare domestico, l'ardore degli affetti familiari, la trasformazione dei soggetti che abitano quotidianamente la casa lungo il percorso della loro vita — oltre a considerare la metamorfosi alchemica di un materiale costruttivo, essenzialmente povero, tradotto in raffinato prodotto d'arte.
La serenità della comunicazione dei mobili lineari della stanza da pranzo, il giardino con i suoi profumi, l'odore di zagara, la frescura e i silenzi, tutto trasmette il linguaggio della casa come oasi: simbiosi tra realtà e sogno.
Da chiarire è il significato del motto incastonato all'ingresso, sul coronamento del portone : dispar et unum.
E' evidente il richiamo ai pitagorici. Il principio fondamentale della loro dottrina consiste nel considerare la vera natura del mondo, come delle singole cose, in un ordinamento geometrico, esprimibile in numeri: dal moto degli astri al succedersi delle stagioni, dai toni musicali al ciclo della vegetazione, tutto è riconducibile ad una struttura numerica.
Dispar è, secondo Pitagora, nella sua essenza, un'entità terminata e compiuta, quindi limitata. Lo stesso è per il bene e la perfezione che stanno sempre dalla parte del limite. Al contrario è per il «pari». Unum esprime l'unità come armonia delle mescolanze e concordanza delle discordanze. Il messaggio finale è l'armonia come giusto equilibrio di «forma e materia», «numeri e cose», «soggetti e oggetti».

Liliana Sammarco