Tajani, i riformisti, e l’ambiguità di allearsi con gli estremisti
Scritto tratto da LINKIESTA
Dopo che la scienza ha smentito il luogo comune che il calabrone sa volare contro tutte le leggi dell’aerodinamica, sappiamo che Antonio Tajani non è un calabrone. Dalla morte di Silvio Berlusconi, sfida se mai le leggi della politica, che avevano previsto la non sopravvivenza di Forza Italia.
Ultimamente, poi, il leader post monarchico, erede ma non troppo del Cavaliere, ha dimostrato di non essere l’Angelino Alfano degli anni Duemila. Non che abbia il quid, ma per lo meno si è impadronito bene dell’apparato di potere interno.
Insomma, il caso Forza Italia merita di essere approfondito, perché questo partito sempre meno artificiale, in via di strutturazione attorno a un nucleo forte di potere romanocentrico, potrebbe giocare un ruolo importante da qui alle elezioni politiche. Soprattutto se avesse voglia di uscire dall’ombra di Matteo Salvini, non solo a parole. E porre la questione della compatibilità politica, primo passo verso un’autonomia davvero centrista.
La crescita attuale è in tutta evidenza dovuta alla capacità di assorbimento nella vasta area centrale. Gode di una rendita di posizione fortemente favorita dalla debolezza e dalle divisioni degli altri soggetti vocati a occupare quello stesso spazio. Gli elettori potenziali sono gli ex illusi di Mario Monti e gli ex delusi del Terzo Polo. Li vedi far capolino in tutti i sondaggi, ma il rischio è che vadano a rafforzare l’area dell’astensione.
Forza Italia ne ha attratti molti, che si sono turati il naso, provenienti prevalentemente dal centrodestra, ma è ancora indigesta ai molti che hanno vissuto con speranza la stagione riformista del Partito democratico, oggi non disposti a iscriversi al centro sociale di Elly Schlein.
Le elezioni regionali in Toscana lo confermano: a questi disperati, se metti sulla scheda qualcosa che sia diverso dal bipopulismo, non par vero di tracciare una croce. E una mano a sconfiggere proprio il bipopulismo putiniano la danno. Non è poco.
Ma a livello nazionale c’è una rigidità che smorza attenzione ed eventuali vie di fuga. Ci vorrebbe uno scossone, e se Forza Italia desse più ascolto magari alla famiglia di Arcore, forse potrebbe succedere qualcosa di nuovo. Ma non ne vede la convenienza immediata.
Così come è, il centrismo di Forza Italia non è centralità, può anche battere una Lega in caduta libera, ma in prospettiva finirebbe per rafforzare la subordinazione ai Fratelli meloniani. Molti presunti liberali già hanno superato il tabù dei post missini e la forza attrattiva del partito più forte – magari incrementato da una nuova legge elettorale – potrebbe sgonfiare la crescita forzista.
Allo stato attuale, lo scossone non conviene ai navigatori. Manca una visione politica, preferiscono lo status quo ministeriale e raccontare la favola bella che una coalizione non è una caserma, chiudendo gli occhi sul fatto che, guarda un po’, nella ex Casa della Libertà, c’è un Generale della Folgore che si presenta come il salvatore delle difficoltà di Matteo Salvini anche dopo la batosta toscana: senza di lui, avrebbe preso il due per cento.
Ad Antonio Tajani, che ha addirittura aspirazioni quirinalizie, basta non essere il curatore fallimentare che veniva dipinto. Contro tutte le previsioni anche di chi lo conosce bene, il segretario ha espresso una capacità di lavoro ai limiti del sacrificio personale stupefacente.
Usando, ma non è una scorrettezza (tutti l’hanno fatto prima di lui), la posizione ministeriale per una visibilità costante e talora persino eccessiva, ha coperto ogni giorno le esigenze di sopravvivenza mediatica del suo partito. La situazione della politica internazionale, mai così totalizzante in certi momenti, ha agevolato e moltiplicato il suo ruolo.
Quanto al partito, vero è che la pochezza della classe dirigente alleata ha facilitato un confronto vincente, ma indubbiamente ha espresso una certa differenza in tema di capacità dei suoi esponenti, molti dei quali, i migliori, non a caso provenienti dalle seconde file dei partiti della Prima Repubblica. A livello locale nessuno del centrodestra ha personalità da spendere quando serve ad esempio in Calabria uno come Roberto Occhiuto, che ha sfidato al tempo stesso la criminalità e la Magistratura.
Si potrà obiettare che devono essere apprezzate le posizioni schiettamente europeiste, il rispetto delle regole dell’economia, tenendosi fuori dagli eccessi populistici (vedi extraprofitti, dove però il populismo prevale), ma proprio qui nasce invece la critica più forte.
Da partito pacioccone, moderato, perbenista diventa partito da condannare per cinismo, incoerenza, disponibilità ad accettare qualunque cosa nell’ipocrita fedeltà all’unità dello schieramento.
Visto in questa prospettiva, Forza Italia diventa addirittura l’esempio più eclatante e diseducativo della cattiva politica. La sacrosanta critica che si fa all’ala riformista del Partito democratico – che accetta mugugnando le scivolate populiste, putiniane e acriticamente propal dei compagni di viaggio – possono pari pari essere riproposte a destra per la condiscendenza azzurra verso altrettante concessioni ai movimentismi salviniani, sempre meno riconducibili a una normale dialettica interna.
Non si può insomma assegnare a Tajani l’atteggiamento da padre nobile della coalizione che gli piacerebbe: «L’ha voluta cosi Berlusconi!», dice. Sì, ma oltre trent’anni fa, e lui era lui, era il federatore non il federato.
Questa ambiguità non è accettabile politicamente e moralmente. E soprattutto c’è un errore di prospettiva. Può andar bene fare i furbetti e incassare potere e prebende nel quadro che sembrava immobile e con esito scontato fino al 2027.
Ma c’è un panorama internazionale in tale sommovimento che la scommessa sullo status quo può diventare un boomerang. Limitandoci all’Europa, continua la crescita strisciante dei partiti populisti e sovranisti. Ora anche i Cechi si sono aggiunti alla lista del declino europeista all’Est, ma cosa accadrà il giorno in cui la Francia diventerà sovranista e la Germania accetterà la sfida dell’estremismo? Avremo in Viktor Orbán il capo della dissoluzione europea?
Se l’Europa dell’eterna triade Cristiana, Socialista, Liberale non resiste più alla spallata, e una Marine Le Pen detta i nuovi equilibri di Bruxelles, avremmo a breve un rovesciamento sconvolgente e sconosciuto alla politologia degli ultimi ottant’anni.
Facile pensare che i Salvini della situazione – pompati dalla guerra ibrida (finanziamenti, campagne social, fake news) di Vladimir Putin e dunque ringalluzziti – potranno finalmente fare in Europa quello che per ora solo dicono.
Cosa farà Antonio Tajani, dirà ancora che il centrodestra non è una caserma e si può accettare di tutto? Cosa faranno, sull’altro fronte, i seguaci di Paolo Gentiloni (lasciamo perdere l’embedded Stefano Bonaccini) che ancora lo scorso weekend ha ricordato che il discrimine con i Cinquestelle è su difesa e Kyjiv? Nasceranno ben altri discrimini, nella prospettiva di dissolvimento dell’Unione europea dei padri.
Altro che continuare a essere testardamente unitari sia a destra sia a sinistra. Lo tsunami costringerà a essere chiari una volta per tutte. La storia si ripete e si dimentica, ma il 1989 è ancora nella memoria della politica attuale. Il Pci è scomparso sotto le macerie del Muro per aver atteso troppo. Poteva capire prima cosa fare, anche se era doloroso e difficile. Come lo capirono quei pochi del 1956. Almeno il 1968 di Alexander Dubceck mandato a fare il giardiniere dopo i carri armati, avrebbe dovuto insegnare e muovere qualcosa. Ci diedero solo il compromesso storico come soluzione per tirar avanti.
Oggi le sfide non sono meno importanti e la velocità di reazione non può essere quella dei decenni persi allora. Lo devono capire i riformisti del Partito democratico, che non devono aspettare di essere tolti dalle liste elettorali preconfezionate da Igor Taruffi per ribellarsi, ma lo deve capire anche l’unico partito del centrodestra almeno flessibile ideologicamente, quello di Antonio Tajani.
Se queste cose avvenissero per tempo, forse quell’italiano su due che rifiuta il voto si presenterebbe alle urne, perché l’assenteismo sta diventando sempre più politico. Sarebbe, cioè, un problema di offerta.
Certamente, sarebbe una scelta obbligata per i tanti che aspettano un segnale da Carlo Calenda, Luigi Marattin, PiùEuropa, ma anche e soprattutto da Matteo Renzi e dai riformisti non abbacinati dal vecchiume falso progressista di Giuseppe Conte, che – al momento di una caduta dell’Unione europea mai come oggi non probabile ma possibile – tornerebbe agli antichi amori gialloverdi, oscillando tra Donald Trump e Vladimir Putin.
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